Nel 2009 i due studiosi francesi Pierre Dardot e Christian Lavalle battezzarono l’affermazione pressoché planetaria del neoliberismo una «nuova ragione del mondo». Con questa espressione non si intendeva solo la forma assunta dal modo di produzione capitalistico, nemmeno il successo di un pensiero egemonico o la convinzione dominante di aver raggiunto la miglior forma di organizzazione sociale immaginabile, una nuova fede o uno strumento infallibile di governo degli umani. Piuttosto tutte queste cose insieme. Ancora più semplicemente la «nuova ragione del mondo» poteva definirsi come la ragione dei vincitori in quanto vincitori. Di che cosa? Di una lunga guerra dei ricchi contro i poveri, dei dominanti contro i dominati, del capitale contro qualunque ostacolo alla sua accumulazione.

È QUESTA GUERRA, i suoi condottieri e le sue armi, le sue astuzie e i suoi strumenti ideologici che Marco d’Eramo ci racconta attraversandone il teatro più decisivo ed esemplare: gli Stati uniti d’America (Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Feltrinelli, pp. 254, euro 19,00). Perché «invisibile», intanto, come recita il sottotitolo del libro, visto che i suoi effetti sono macroscopici e i suoi protagonisti ne sbandierano il trionfo: «certo che c’è guerra di classe, e la mia classe l’ha vinta. L’hanno vinta i ricchi», proclama lapidario come il Gallo Brenno del «guai ai vinti!», il miliardario americano Warren Buffet.

Invisibile però per due ragioni. La prima è che la sinistra socialdemocratica, (la più consistente e longeva in Occidente), tanto nelle sue forme più radicali quanto in quelle più estese e moderate ha deposto le armi già prima di combattere assecondando passo dopo passo l’affermazione del mercato come principale regolatore non solo degli scambi, ma di ogni fatto sociale. La seconda è che gli sconfitti, ossia le classi subalterne che non si riconoscevano più come tali, hanno in larga misura interiorizzato il modello antropologico imposto dai dominanti. La classe è stata convinta di non esistere più e non grazie a quella riuscita integrazione di cui scriveva Herbert Marcuse negli anni Sessanta. Certo, perché questo potesse accadere c’è voluta una profonda trasformazione del modello produttivo e delle sue forme di organizzazione, di innovazione tecnologica e di quelle «metamorfosi del lavoro», analizzate già decenni fa da André Gorz, in breve il superamento del sistema di produzione fordista e del suo contesto sociale. Ma tutto questo non è accaduto nei termini di una evoluzione del sistema in qualche modo implicita nelle sue premesse di illimitata accumulazione.

C’è voluta appunto una guerra, o una controrivoluzione, come anche è stata definita da chi poneva l’accento sulla reazione ai rapporti di forze che le lotte operaie erano riuscite a determinare dalla fine del primo conflitto mondiale agli anni Settanta del Novecento. E dunque una forte soggettività, abilità tattica, visione strategica. Nonché una potente offensiva ideologica che, mentre il movimento operaio era impegnato nel redimersi giurando su un pragmatismo subalterno scevro da ogni ideologia, agiva come una poderosa forza materiale sui comportamenti sociali e sugli orientamenti politici.

COME UN VERO PARTITO bolscevico i grandi capitalisti d’oltreatlantico affermavano senza esitazioni e con ogni mezzo necessario il loro «punto di vista di parte» come unico e indiscutibile «interesse generale». A partire da quel terreno di scontro che i tedeschi avevano definito Kulturkampf e che d’Eramo ricostruisce nella versione americana come contro-intellighentsia, termine mutuato dalla dottrina militare della counterinsugency. Una guerra ideologica destinata ad incidere sulla rappresentazione stessa che l’avversario di classe ha di sé, fino a riconoscersi nella narrazione imposta dai vincitori.

Di questa guerra controrivoluzionaria l’autore rintraccia e descrive attraverso un imponente lavoro di ricerca, armi e strumenti, comandanti e truppe. I ricchissimi magnati che la finanziano, le fondazioni e i think tanks che ne elaborano le strategie e ne mettono a punto le narrazioni, colonizzando le Università e istituendo gli indirizzi di studio più funzionali alla diffusione e all’affermazione del punto di vista neoliberista e politicamente conservatore. Il premio Nobel per l’economia, inventato di sana pianta dalla Banca centrale svedese nel 1968, nella seconda metà degli anni Settanta promuove a ripetizione i monetaristi della scuola di Chicago discepoli dell’ultraliberista von Hayek, a partire da quel Milton Friedman che fu ispiratore e collaboratore del golpe cileno del 1973 e della conseguente dittatura di Augusto Pinochet. Già, perché la dottrina, quando si tratti di convincere i riottosi, non si tira certo indietro di fronte a un bagno di sangue.

D’ERAMO si sofferma in particolare su due dei pilastri ideologici sui quali poggia la reazione neoliberale: il «capitale umano» e il rapporto tra debitore e creditore. Come è noto il primo istituisce una forma perversa di eguaglianza, riconducendo la distinzione tra classi a un unico tipo antropologico: il possessore di un capitale personale da investire e far fruttare facendosi «imprenditore di sé stesso» in un regime di universale concorrenza. In questo schema ogni distinzione tra un grande capitalista e un lavoratore povero si ridurrebbe a una questione quantitativa determinata dal maggiore o minore successo imprenditoriale.

NONOSTANTE contraddica patentemente qualsiasi esperienza reale, questa rappresentazione trae la sua forza dal solido fondamento dell’individualismo proprietario. Quello canonizzato da John Locke nel XVII secolo che attribuiva ad ogni individuo un diritto assoluto di proprietà su sé stesso, sul proprio corpo, sul proprio lavoro e sulle proprie capacità mentali facendo discendere da questo principio l’estensione pressoché illimitata dell’appropriazione privata. Certo, questa idea conteneva una spinta liberatoria (rispetto alla schiavitù, alla servitù della gleba, all’appartenere ad altri) e alla fissità invalicabile delle condizioni sociali. Gli ideologi neoliberali si sono abbondantemente serviti della trappola insita in questa formulazione destinata più a garantire la sacralità naturale della proprietà privata che non l’autonomia dei soggetti. Fino al ripristino liberista della schiavitù attraverso il diritto di vendere la propria persona (in quanto proprietà privata) rivendicato da Robert Nozick.

Il secondo pilastro è il rapporto di potere costituito da «una relazione asimmetrica di credito/debito». Relazione destinata a conservarsi in perennità poiché «instaura una servitù il cui riscatto è posto a un livello troppo alto per poter essere saldato nel corso di un qualunque orizzonte storico immaginabile». Anche in questo caso non si tratta di un puro e semplice rapporto economico, ma di un assetto complessivo e articolato, di un poderoso sistema di controllo non privo di assurde pretese morali, estraneo a qualunque ragione contabile. Qui la minaccia di «fallimento» non incombe sui singoli «imprenditori di sé stessi», ma sugli stati, su intere società, imponendo condizioni di vita e norme comportamentali. Cosicché soprattutto ai più deboli e poveri può essere rivolto l’indecente rimprovero di «vivere al di sopra delle proprie possibilità». Appunto che nessuno si sognerebbe di fare a proposito dello stratosferico debito pubblico statunitense.

COME REAGIRE a questa disastrosa sconfitta? Una risposta immediata non sembra all’ordine del giorno. Tuttavia non vi è narrazione che alla fine non si scontri con l’esperienza, soprattutto quando questa viene ampiamente condivisa. E riesca a generare una soggettività politica abbastanza potente da scardinare l’universo ideologico del neoliberalismo, le sue regole e i suoi dispositivi. Così come quest’ultimo è riuscito negli ultimi quarant’anni a far passare i suoi antagonisti come patetici e infantili sognatori del paese di Cuccagna.