Con la graduale e generalizzata chiusura al traffico automobilistico, il corso dei centri storici delle città era già tornato a essere fruito, pienamente e prepotentemente, da pedoni e ciclisti. In ultimo, dai monopattinisti. Via via è stato trasformato in un set spontaneo, ambito e affollato, dove s’indulge alla rappresentazione del soggetto per il piacere di ritrovarsi oggetto delle attenzioni altrui. Più persone lo percorrono, più forte è la spinta a improvvisarsi in ruoli, se possibile, di protagonisti. Nel tempo del tutto già visto e del disincanto, oltre che in quello del disimpegno, non resta che indugiare negli eccessi della propria immagine fisica, del modo di comportarsi, così da distinguersi per essere notati, magari ammirati. Ostentare sé stessi, oltre sé stessi.

L’autopromozione e l’autostima della personalità di ognuno si conquistano sulla passerella del vecchio corso, assiepato ai bordi da luci vivide dei locali, da crescenti questuanti di varia estrazione, da mimi e percussionisti di strada ormai stanziali, nel fluire placido del passeggio da parata dei fine settimana. È stata questa la piega pre-pandemica, diffusa e certificata, che faceva sentire l’individuo intimamente contento per uno scorcio di visibilità regalatosi. Quindi le limitazioni senza deroga, la ripartizione a singhiozzo delle regioni con fasce di color pastello, le proteste motivate o pretestuose dei residenti, i divieti. Di conseguenza gli atteggiamenti eccentrici, di chi ce la mette tutta per apparire fuori dal comune, che fanno effetto proprio se vigono i divieti. Come una scena da matrimonio sul vecchio corso al calar della sera, che pur ne ha viste che ne ha viste! La parte di primo piano non era spettata a una coppia di sposi, di bell’aspetto benché stagionati, ma al codazzo che li festeggiava con un’esteriorità fuori luogo e fuori tempo. Una dozzina di intimi, abbigliati con la ricercatezza dell’occasione, abusava dello spazio pubblico fra passanti parecchio frettolosi e poco incuriositi.

Mentre la coppia nicchiava per la foto di rito fra le architetture settecentesche di un palazzo nobiliare da scegliere come fondale, qualcuno degli invitati stappava con fragore il sughero della bottiglia fra lo scrosciare istantaneo ma breve di applausi; altri ancora reggevano un vassoio argentato su cui erano state allineate coppe di vetro riempite con prontezza, per non far disperdere le bollicine di champagne, brindando coi novelli (?) sposi rientrati fra i ranghi dell’allegra brigata. Un’esibizione superba, da spot pubblicitario, e al contempo libera, senza cabina di regia, aveva illuminato repentinamente, furtivamente, in appena dieci minuti, le pietre inscurite del corso plurisecolare, tuttora centralissimo, e oltretutto morente di virus.