Incredibile come per certe persone il tempo sembra non scorrere mai. Giorgio Barberio Corsetti – regista romano che ormai ha alle spalle 40 anni e più di teatro – quell’aria da ragazzino non l’ha mai persa. “Quando lavori intensamente non ti rendi conto che gli anni passano – confessa – . Ho amato tanti spettacoli nel corso della mia carriera, in molti modi diversi, e altri ancora ne attraverserò. Ma quando mi chiedono qual è quello a cui sono più legato rispondo sempre il prossimo”.

Il bello è che di nuovi progetti nel cassetto Barberio Corsetti ne ha sempre tanti. In questo momento, per esempio, è in tournée il suo Re Lear (una produzione Teatro di Roma – Teatro nazionale e Teatro Biondo di Palermo), e fra pochissimo volerà all’estero, in Giappone, per un nuovo spettacolo.

“Ho Sempre avuto come base Roma, città dove sono artisticamente cresciuto – racconta – . Ma ho vissuto anche in Francia, in Belgio, viaggio molto in Europa in generale e non solo. Insomma sono sempre in giro”.

Giorgio è una carriera densa la sua, iniziata nel lontano 1976 con la compagnia Gaia Scienza. Nel frattempo si sono susseguite regie teatrali e liriche, festival e rassegne… Cosa cerca nel teatro?

“Cerco la parte segreta, il nucleo ardente. Dove c’è il calore nascosto che mi parla io vado. Al di là dell’aspetto più razionale, è come se si manifestasse un’apparizione iniziale che poi diventa il motore del teatro. Tutto il resto – come e perché scelgo un’opera piuttosto che un’altra – viene dopo”.

E’ molto difficile fare teatro a Roma?

“Difficilissimo. Roma è una città infernale, bellissima e dannata, purtroppo animata da faide da basso impero. Non si capisce perché in una città così colta, piena di intellettuali, densa sia impossibile fare teatro. Noi siamo qui, che resistiamo, sempre. Ma dov’è la politica culturale? Io credo ancora che il teatro possa salvare il mondo. Così come la poesia o la musica possono cambiare la gente. L’arte è qualcosa di vitale, come l’acqua”.

Parliamo di Re Lear. Come mai la scelta è caduta su questo testo di Shakespeare, autore che lei non ha mai frequentato molto?

“Ho lavorato a lungo su questo testo, per più di un anno, attraverso vari laboratori. Ho scelto Re Lear per una questione anagrafica. Il tema è la vecchiaia, sentivo che il tempo da vivere iniziava a scivolare via e volevo approfondire la questione. Non c’è solo questo ovviamente: Re Lear è anche una riflessione sul potere e sul rapporto padri-figli. Qui c’è un padre che non ha saputo vedere e capire e riesce a farlo solo quando diventa pazzo e cieco. E’ un viaggio dentro l’inconscio”.

Un viaggio in cui ci accompagna Ennio Fantastichini, nei panni di Re Lear. Come è andata con lui?

“Benissimo direi. Io ed Ennio ci conosciamo dagli anni Settanta. Lui aveva 20 anni e io 16, recitammo insieme Aspettando Godot di Beckett. Poi, dopo l’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico, lui iniziò a fare teatro con Dario Fo, mentre io presi altre strade. Ci siamo un po’ persi ma siamo sempre rimasti amici ed ora ci siamo ritrovati. Il nostro è un legame antichissimo, quindi. Mi è sembrato perfetto per la parte di Re Lear, un uomo pieno di forze che vuole godersi la vita”.

Già, godersi la vita, altro che ritirarsi…

“Lear è vecchio. Quello che vuole fare è tenersi i cavalieri e bivaccare dalle figlie. Vuole esserci, ma libero dalla preoccupazioni”.

La prima scena dello spettacolo, una specie di festino che viene ripreso dalle telecamere e le cui immagini vengono proiettate su un grande schermo, ricorda molto La grande bellezza di Sorrentino.

“Be’ sì, l’idea era proprio quella di ricreare l’atmosfera di un festino, durante il quale vengono introdotti tutti i temi da scandagliare nello spettacolo, primo fra tutti la divisione di un regno”.

Re Lear è un testo che, come accade spesso per Shakespeare, sembra parlare dell’oggi.

“Sì, infatti. Diciamo che il testo è diviso in tre parti come il regno di Lear: il dramma delle due famiglie, Lear e Gloucester; la tempesta, la fuga, la follia, la natura che si confondono con la mente; la guerra che arriva come una battaglia di soldatini, in cui un re dovrebbe essere salvato dalla figlia che ha cacciato, ma perde lasciando al potere la necessità di ricostituirsi intorno ad un nuovo personaggio. Qui la trama è importante quanto i singoli momenti poetici. Ho cercato di mantenere un certo equilibrio tra il racconto e la poesia, che in Shakespeare non è mai letteraria ma legata alla situazione teatrale. E’ vero che Lear avviene adesso, nei nostri giorni, in un mondo fluttuante, dove l’economia e la finanza ci spingono da una crisi all’altra. Portandoci con loro…è la storia del potere della successione, di padri e figlie, figli e padri. Lear vuole ritrovare la giovinezza perduta, abbandonare le cure del regno, il peso delle responsabilità, poter vagare con i suoi cavalieri da un palazzo all’altro, fare bagordi e occuparsi solo del proprio piacere; per combattere la solitudine e l’approssimarsi della fine si porta dietro un seguito colorato e chiassoso, di dubbia moralità. Lear vuole essere amato, perché pensa che il sentimento delle figlie sia una garanzia, un investimento che gli permetterà di vivere spensierato una seconda giovinezza. Vuole essere amato perché sta dando via il potere, quindi un gran regalo, pensa, in realtà si sta alleggerendo per volar via libero. E il potere si diffonderà come una malattia contagiando tutti».

Non ha mai pensato, anche solo per un attimo, che fosse un’operazione rischiosa rendere Shakespeare contemporaneo?

“Non ho avuto dubbi a spostare il Re Lear nel presente. Quello che volevo era raccontare una storia, andare in profondità. Qui ogni scena è un enigma, crea un rapporto di tensione”.

Il suo prossimo volo, diceva, sarà verso il Giappone?

“Andrò in Giappone per allestire L’Opera da tre soldi con attori giapponesi. Poi ho diversi altri progetti di opere liriche in giro per il mondo. Il prossimo anno farò La Sonnambula a Roma e a Palermo il Don Pasquale. Mi piacerebbe anche riprende Le rane di Aristofane, con Ficarra e Picone, spettacolo che ha debuttato quest’estate a Siracusa; è un lavoro molto forte, il mio desiderio è portarlo nei teatri”.