È il venticinquesimo anno che la Fortezza medicea di Volterra cessa per una settimana di essere carcere e si apre al pubblico per mostrare il lavoro teatrale che Armando Punzo conduce con i detenuti che qui scontano pene pesanti. È una sorta di «tradizione» cresciuta negli anni e apprezzata ormai anche fuori dell’Italia. Assieme al lavoro nel carcere, anche la ricerca di Punzo è cresciuta, assorbendo la ricchezza di un procedere per gradi, per successivi assestamenti durante i quali anche la presenza di questi particolari attori diviene patrimonio artistico oltre che esistenziale e culturale.
Un grande stendardo accoglie quest’anno i visitatori ammessi alla Fortezza, rivendicando la richiesta che questo teatro divenga «stabile».

Non nel senso che abitualmente si dà a questo termine, si spera, perché piuttosto ci sarebbe da chiuderne buona parte di quelli esistenti, ormai decrepiti e autoperpetuativi. Proprio come, ugualmente, non ci sarebbe da perpetuare per legge una condizione che nega la libertà a chi si augura di riconquistarla presto. Sarebbe il caso di cambiare la formula, e rivendicare piuttosto che il carcere, tutte le carceri, possano diventare luogo di accoglienza e confronto (con finanziamenti appositi e garantiti) con espressioni culturali che aiutino il recupero e il reinserimento di chi ha commesso reati. Il modello da far affermare è piuttosto quello praticato quest’anno (anticipato in qualche misura da una iniziativa nelle carceri toscane attorno a Firenze lo scorso anno), ovvero la possibilità che a fianco ai detenuti della casa di reclusione ospite, altre compagnie, professionali e «da fuori» trovino spazio oltre le porte blindate per mostrare il loro lavoro. In astratto potrebbe sembrare pura utopia, ma Volterra 2013 ha mostrato che questo è possibile, e può superare anche la più rigida delle burocrazie.
Infatti, al termine del nuovo spettacolo della Compagnia della Fortezza, gli spettatori (quest’anno una fascia allargata, ci si poteva prenotare fino a poche settimane fa attraverso la rete) avevano la possibilità di scegliere tra il godere di esperienze poetiche come quella magnifica di Mariangela Gualtieri, oppure cominciare a seguire il percorso affascinante di Mario Perrotta attorno alle visioni umane e pittoriche di Ligabue.

E ancora misurarsi con i 45 rifugiati che con la guida del Teatro dell’argine offrono alla scena la loro drammatica esperienza (un problema che l’affare kazako ha riproposto nella sua drammaticità), oppure sondare la propria sensibilità davanti alla proposta di Babilonia Teatri di affrontare il tema tragico e scabroso dell’abuso sull’infanzia.

È che la loro Lolita, interpretata sulla scena da una bambina di 11 anni, rischia di produrre paradossalmente l’effetto contrario, come può capitare ad un moralismo iperrealista di tramutarsi esso stesso in pornografia. Al di là e contro gli intenti del gruppo veronese, la visione della piccola narrante diviene presto insostenibile, lungo la cronaca «giudiziaria» dello stupro subito a otto anni e del suo suicidio «liberatorio» previsto tra qualche anno. Ma il vero grande punto di attrazione di Volterra Teatro 2013 è stato ovviamente lo spettacolo di Punzo con i detenuti. Anche perché oggetto e motore è lo scrittore del 900 che più di tutti ha vissuto, sofferto, amato, raccontato e reso poetico il carcere. Santo Genet commediante e martire (il titolo ricalca quello del saggio famoso con cui Jean Paul Sartre lo lanciò nell’empireo dei grandi scrittori e intellettuali del secolo) attraversa, interpreta, rende fisica e colorata la scrittura di Jean Genet (da cui qualche anno fa era uscito qui un memorabile I negri). Una scrittura solida e differenziata, che permette allo spettacolo di citare e volare dai romanzi al teatro, dalla poesia alla riflessione di quel personaggio contraddittorio e complesso, meraviglioso e ambiguo che fu lo scrittore.

Le sue passioni e le sue creature di affollano e si intrecciano, si occhieggiano e si beccano in una grande parade lungo il corridoio tra le celle dismesse e nel cortile segnato dalle sbarre gigantesche. Qui si viene accolti da Nostra Signora dei Fiori, ovvero lo stesso Punzo en travesti sinuoso e ammaliatore col suo bouquet floreale. Ma appena il pubblico si è raccolto deve subito passare attraverso un doppio picchetto di marinaretti alla Querelle de Brest, ed entrare quindi, sfidando la ressa e il caldo, nel ventre oscuro della scrittura de Genet, di cui, tra un mare di specchi incorniciati cui si riflettono e sbirciano quelle figurine, si riconoscono seppure a brandelli ancora I negri e il coloniale Balcone, una donna che pare uscita dalle Serve e prelati di vario titolo, Querelle e Elle, Il diario del ladro, Il miracolo della rosa, Il funambolo, ovviamente Nostra Signora dei Fiori. E come non bastasse spuntano echi rapiti a Pinter, a Viviani, a Franco Scaldati. L’insieme, seppur nella calca, è commovente ma anche doloroso: il nero offre il proprio atletismo statuario, i tre orientali trasformano mirabilmente quei miraggi di eros e di armonia in una tripla apparizione di geishe pucciniane.
Grandi colpi teatrali, e insieme sonde esistenziali nella memoria e nell’immaginario di ogni detenuto e di ogni spettatore, un connubio che può rivelarsi esplosivo ad ogni contatto. Ancora siamo al «primo movimento» come lo definisce Punzo, ma basta avere pazienza, fantasia e disponibilità per attendersi uno spettacolo anch’esso memorabile e compiuto. Come è successo a quel Mercuzio non deve morire, che dopo tre anni di ricerca e costruzione, appare stasera a pieno titolo sul palcoscenico del teatro Persio Flacco di Volterra. Il teatro che nasce dentro può rinascere fuori, e spesso non fa affatto male.