Si discute molto in questi giorni di una maggiore autonomia dell’Unione europea e lo si fa insieme all’auspicio di una politica estera e di difesa comune. Al tempo stesso questo auspicio è corredato dall’affermazione che tale prospettiva resta ancorata al sistema di alleanze della Nato.
Il che pone un interrogativo ineludibile. Il Patto atlantico obbedisce ad una precisa geografia e gerarchia politico-militare dominata dagli Usa e dal permanere della loro contesa contro la Federazione Russa e i suoi alleati anche dopo la fine del Patto di Varsavia e dell’Urss. Inoltre negli anni più recenti il rapido sviluppo economico, tecnologico e militare della Cina, accompagnato dal suo espansionismo politico nello scenario internazionale l’hanno resa il principale competitore e antagonista degli Stati Uniti. Sicché questi hanno rivisto notevolmente l’ordine delle priorità nella loro politica estera.

Ma non c’è dubbio che, sia rispetto alla prima che alla seconda direttrice, il ruolo dell’Ue è stato e continua ad essere decisamente subalterno rispetto alla preminenza degli obiettivi degli Usa e della Nato. Del resto, la formazione stessa dell’Ue ed il suo completamento negli anni ’90 con i trattati di Maastricht e di Amsterdam sono avvenuti sotto l’egida ed in funzione degli interessi transatlantici. Interessi cui si è accodata fino ad oggi. Sicché l’eco di una maggior autonomia che sembra risuonare nelle discussioni attuali sulla politica estera e di difesa dell’Ue appare velleitario e contraddittorio.

In realtà, un’Europa che volesse svolgere con coerenza e a vantaggio di tutti un ruolo autonomo nello scenario internazionale avrebbe tutte le possibilità e utilità a farlo. Possibilità che derivano da un lungo retaggio storico e culturale espresso nelle fasi migliori della sua millenaria esperienza. Retaggio che continua a scorrere come un potenziale carsico nelle vene di una vocazione cosmopolita, ma che rischia di prosciugarsi nel prevalere di chiusure e recinzioni, a cominciare da quelle erette contro i migranti provenienti da altri paesi. Proprio perché quella vocazione si è alimentata di innumerevoli incroci tra popolazioni, culture, civiltà diverse.

Ma per svolgere un ruolo realmente autonomo e giovevole per tutti il Vecchio Continente dovrebbe farsi promotore convinto e tenace di un nuovo ordine internazionale. E non serve certo che questo sia concepito nei termini di una partizione tri o quadripolare. Occorre pensare ad un concerto dei rapporti internazionali che sia del tutto plurale ed aperto alla cooperazione di ciascun paese, secondo la disponibilità delle sue risorse e nella legittima espressione dei bisogni della sua popolazione.

Senza dubbio si tratta di un’impresa ardua perché contrasta, non solo con la gerarchia che caratterizza la geografia politica attuale, ma perché si colloca in una prospettiva completamente altra da quella competitiva ed antagonista che ha dominato gran parte della nostra storia, montando sempre più negli ultimi secoli, fino ad influenzare il nostro stesso modo di pensare e agire nei rapporti tra paesi, tra gruppi sociali e perfino tra individui.
Eppure un nuovo ordine, plurale, cooperativo e pacifico è necessario per contrastare gli squilibri ecologici, demografici, sociali che incombono minacciosamente sul nostro futuro prossimo.

A fronte di tale inderogabile esigenza e della consapevolezza sempre più diffusa che se ne ha tra milioni di persone, giovani e meno giovani, in ogni parte del mondo, la vecchia logica contrappositiva e, al fondo, militarista che emerge dai piani di Bruxelles mostra un’angustia e pericolosità cui occorre opporsi con la massima chiarezza e decisione.