Tra Hermiston a Portland nell’Oregon si stendono 29 miglia che attraversano il territorio della riserva indiana di Umatilla. I primi di giugno del 1925 Walter Chappell, a cui è dedicata la mostra Walter Chappell. Eternal Impermanence (è stata inagurata ieri in contemporanea con l’apertura del Festival della Filosfia di Modena, Carpi, Sassuolo. Il catalogo è edito da Skira), appena nato e protetto dalle braccia del padre, torna a casa percorrendo quella strada. È il suo primo viaggio. A suo dire, fondativo della sua storia. Da adulto dirà addirittura di ricordarsi della vicenda. La comunità che abita sul territorio è vivace e ancorata saldamente alle tradizioni. I raduni annuali delle tribù dei nativi americani della costa occidentale hanno luogo a Portland dove si praticano riti e danze tribali. Walter Chappell che ha anche sangue indiano, assimila profondamente modi di essere e di relazione, pratiche rituali, pensieri e sentimenti. A casa poi, ci sono il giardino e l’orto dove odori, rumori, colori sono l’ universo sapido che assapora il piccolo Chappell.

Tutto questo è fondamentale per la personalità di Chappell poichè è in quel luogo che trova radici lla sua ricerca artistica e personale. Dai primi giorni della sua vita e da questi luoghi Walter Chappell trarrà infatti gli elementi della narrazione autobiografica radicata nella storia famigliare e nel territorio come nella tradizione dell’epopea americana. L’avventura umana e artistica di Walter Chappell diventa così esemplare di un periodo storico. Non si tratta ovviamanete dell’epopea iniziale della conquista, già assimilata, ma di quell’epopea che si nutre delle gesta della middle class nel pieno della crisi degli anni Trenta: multiculturale, pragmatica e nomade, dai valori famigliari fondativi; una middle class che gode di alcuni privilegi, ma che è subito pronta a ricominciare ogni volta dal basso. E cioè dalla terra.

Chini sulla terra i suoi antenati per scovare di che nutrirsi e di che sopravvivere, chini sulla terra i nonni e i contadini che per loro lavoravano, chini i genitori per cavarsela in modo autarchico nei periodi neri, chini lui e il fratello per il piacere del contatto con la natura, con gli animali, con il mare e con le sue creature. La natura è sempre centrale. I ricordi famigliari diventano rocce sulle quali posare le scelte successive: così la nonna Sadie, che allinea in file ordinate un’infinità di vasetti sottovuoto colmi di verdure e di frutta, di miele e di succo d’acero è il punto di ancoraggio della personalità di Walter. Il mondo infantile si stempera nella contemplazione delle cose e nel sapido gusto degli alimenti che gli viene trasmesso dalla nonna, figura assurta a deposito di un sapere ancestrale fatto di tempi lunghi e del godimento quasi religioso delle piccole cose. È Walter Chappell che si racconta al figlio Robin in una lunga intervista: «Mi ha insegnato a mangiare il formaggio come se fosse qualcosa di diverso da una semplice fetta di formaggio, a prenderne una scaglia alla volta lasciando che si sciogliesse in bocca, apprezzandone ogni morso. A mangiare non come se te volessi disfare, ma a sentire il sapore delle cose. Per lei era proprio questo il punto chiave».

Il racconto autobiografico si snoda tra sentimenti e sensazioni, tra la ricca vicenda affettiva e la sparsa progenitura, sempre in stretto contatto con la natura e con le cose. Molti gli episodi fortemente intrisi di emozione di fronte alla scoperta del mondo. Musica e fotografia, suono e luce, le due strade che Walter Chappell sceglie per esprimersi, anche se sarà la fotografia a prendere il sopravvento nella ricerca di un modo per raccontare lo stupore di fronte alle forme del mondo, rivelatrici di una spiritualità pandemica. È a partire da questo sentimento, da un porsi su un piano empatico nell’incontro con il mondo, che nascono le immagini di Walter Chappell. Ed è per questo che l’opera fotografica non può essere separate dalla biografia: l’una e l’altra si completano, in un rispecchiamento reciproco della ricerca spirituale. Il testo, integrale e sinora inedito, fa parte del volume che accompagna la mostra ed è una preziosa segnaletica per le immagini esposte nelle sale della Fondazione per la Fotografia di Modena presso l’Ex Ospedale Sant’Agostino.

Bianchi e neri rigorosi, tendenti più ai toni scuri che alle declinazioni morbide , raccontano la vicenda di uno sguardo che porta l’impronta degli anni sessanta e settanta americani, ma che nello stesso tempo è il risultato del lavoro di una personalità forte. La sua ricerca visiva sulle forme della natura e quindi anche del corpo umano è stata innovativa e del tutto fuori dagli schemi , a tal punto che più di una volta la polizia fece irruzione durante le sue mostre: una volta negli anni Sessanta a Santa Cruz, in California, un’altra nel 1990 quando un suo autoscatto nudo abbracciato al figlio del 1962 fu sequestrato.
Il suo lavoro seminale, pensato in forma di libro World of Flesh, non ha trovato editori negli Stati Uniti : è un inno alla vita in tutte le sue manifestazioni, apertamente esplicito sulla vita sessuale seppure. Eppure il lavoro è di grande interesse estetico. La maquette originale del libro è esposta in posizione centrale nella retrospettiva di Modena. Interessante anche la ricerca sulla fotografia elettrica , sulla scia delle sperimentazioni ottocentesche sull’aura, che era stata ripresa negli anni Trenta da Kirlian e da Chappell fatta confluire nel volume Metaflora. La mostra di Modena ha il merito di far conoscere non solo il lavoro, egregio, di Walter Chappell, ma di collocarlo nell’ambito in un periodo di grande creatività della fotografia Americana. Walter Chappell è stato intimo amico, tra altri, di Minor White e di Paul Caponigro, di Imogen Cunningham , di Edward e Cole Weston, collaboratore di Beaumont Newhall alle George Eastmann House, fondatore della «Association of Heliographers Gallery Archive».