«In Iran il nuovo linguaggio poetico è la fotografia», spiega Newsha Tavakolian in veste di co-curatrice (insieme a Anahita Ghabaian Etehadieh che nel 2001 ha creato la Silk Road Gallery, prima galleria di fotografia in Iran) della mostra Iran. Année 38. La fotografia iraniana contemporanea dopo la Rivoluzione del 1979, ospitata nell’Église Sainte-Anne, cuore del circuito dei Rencontres de la Photographie Arles 2017 (fino al 24 settembre).
Una mostra complessa e ambiziosa che offre interessanti sguardi sul paese, sulla sua popolazione e sull’affermazione della fotografia come arte visiva, in relazione ai cambiamenti socio-politici, economici e ambientali dell’Iran. Anche attraverso la decisiva partecipazione al femminile nel gruppo di 66 autori che da Abbas a Maryam Zandi attraversano tre generazioni – tra loro Shadi Ghadirian, Babak Kazemi, Gohar Dashti, Mehran Mohajer, Rana Javadi, Abbas Kiarostami, Tahmineh Monzavi, Ghazaleh Hedayat, Sina Shiri – alcuni dei quali presenti pure nel documentario Focus. Iran, prodotto da Arte e presentato in anteprima ad Arles.

Iran
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IL 1979 È STATO L’ANNO che ha segnato, nella storia del paese, il confine tra il passato e la contemporaneità, con tutte le sue criticità e contraddizioni a partire dall’adozione stessa del «nuovo» nome: il primo aprile venne proclamata la Repubblica Islamica con la nuova Costituzione che conferì il ruolo di guida religiosa all’ayatollah Khomeini. Per le strade di Tehran, nel mese di gennaio e poi a febbraio (per l’esattezza il 12) c’era anche Kaveh Kazemi, l’allora giovanissimo autore dello scatto che mostra una donna in chador nero che con una mano respinge l’obiettivo dell’apparecchio fotografico e con l’altra abbraccia il fucile HK G3. Un’immagine iconica scattata all’Università di Teheran: Kazemi iniziava la sua carriera solo un anno prima, di ritorno dall’Inghilterra dove aveva studiato fotografia, subito catapultato nelle dinamiche della Rivoluzione, ma istintivamente lucido su ciò che era interessato a documentare.

Nei boulevard, nelle piazze, nei campus universitari gli studenti di entrambi i sessi gridavano slogan con il pugno alzato, manifestando la loro opposizione ai rigidi dettami del neo-regime (a partire dall’obbligo d’indossare il velo), così come avevano fatto due anni prima contro il regime dispotico dello scià. Lo vediamo dagli scatti di Maryam Zandi e Rana Javadi, oltre che di maestri come Bahman Jalali e Kaveh Golestan. Fino all’avvento della Rivoluzione, Jalali e Golestan erano stati gli unici due fotografi locali ad aver esercitato la professione, perché la dinastia Pahlavi aveva sempre preferito affidare ai fotografi stranieri il compito di tradurre visivamente la prosopopea e la gloria di un progresso che era in parte solo apparente.

La vittoria dell’integralismo, di cui si intuirono subito i limiti, non fu quindi sancita dalla pedissequa partecipazione popolare, tutt’altro. Ma il momento decisivo nella storia della fotografia iraniana fu la lunga e sanguinosa guerra Iran-Iraq (1980-88) che portò in prima linea i reporter iraniani, vista l’impossibilità per quelli stranieri di entrare nel paese. Unicamente a loro, quindi, veniva affidata la responsabilità di condividere con il mondo l’ennesima follia che minò la certezza delle generazioni presenti e future.
Ecco, allora, che immagini storicizzate tra cui Terminal sud (1988) – la foto in bianco e nero di Sasan Moayyedi che mostra civili in fuga dalla capitale colpita dai missili iracheni – vengono esposte accanto alle suggestive foto a colori della serie La Lumière et la Terre (2011) in cui Saba Alizadeh proietta volti di soldati morti (tratte dagli archivi di guerra) sui divani all’interno di mura domestiche, mettendo in atto un meccanismo in cui la memoria collettiva viene «addomesticata».

UN’OPERAZIONE non troppo distante dalla «collezione» di placche con i numeri civici delle abitazioni di Khorramshahr (sulla frontiera Iran-Iraq) con cui Babak Kazemi in Khorramshahr numéro après numéro (2008) pone il pubblico di fronte alle conseguenze della guerra in termini di perdite umane e materiali. Anche la messinscena a cui ricorre Gohar Dashti nella serie Today’s Life and War (2008), giocata sullo spiazzamento e l’ambiguità, è la proiezione di un vissuto personale della stessa fotografa nata e cresciuta ad Ahwaz, città molto vicina al confine con l’Iraq. Durante il conflitto era solo una bambina, ma non ha mai dimenticato la presenza costante di sottofondo della guerra, «era come vivere nel paradosso».

I CONFLITTI, PERÒ, non sono solo quelli esterni: ancora una volta Kazemi, corteggiato dai collezionisti internazionali, nella serie La Sortie de Shirin et Farhad (2012) recuperando un’antica leggenda persiana, denuncia la mancanza di libertà degli iraniani di vivere l’amore, senza la pressione del controllo governativo anche nella sfera più intima, così come Sadegh Tirafkan – tra i primi fotografi concettuali del paese – affronta tematiche che vanno dall’identità alla religione, associando la tecnica del ritratto con illustrazioni del passato. E, da parte sua, Shadi Ghadirian mette in scena il conflitto apparecchiando la tavola con un bel piatto con le decorazioni florali, accanto al coltello affilato rosso di sangue che cola (Nil Nil, 2008): la messinscena è un espediente utile per aggirare gli ostacoli della censura e proprio Ghadirian è stata fin dal 1998 (anno in cui ha realizzato la celebre serie Qajar), fonte d’ispirazione per i giovani, tra cui Ebrahim Noroozi, Morteza Niknahad & Behnam Zakeri e Azadeh Akhlaghi. Quest’ultima, nella sua serie Témoin oculaire (2012), ricostruisce episodi di cronaca cruciali per la storia del paese in cui le morti tragiche rivivono teatralmente, ad esempio l’assassinio degli studenti da parte della polizia dello scià all’università di Tehran che manifestavano contro la visita di Richard Nixon il 7 dicembre 1953, o l’incidente automobilistico che nel 1967 costò la vita alla poetessa-ribelle Forough Farrokhzad.

Come sottolinea anche Newsha Tavakolian, fotoreporter dell’agenzia Magnum dal 2015 e autrice di Regard (2012-2013) che per sei mesi (ogni sera alle 20) ha catturato un frammento della storia personale dei suoi vicini di casa, «non documento con distacco una serie di eventi, sto cercando di trovare una collocazione nel mio mondo della fotografia».
Negli scatti esposti nell’Église Sainte-Anne la città di Tehran è centrale, tuttavia la visione che viene restituita è meno edulcorata di quanto si possa immaginare. La fotografa Tahmineh Monzavi ne mostra i lati oscuri negli scatti in bianco e nero di Grape Garden Alley (2008-2011), nome di un ricovero governativo per donne ai margini della società, dove ritrae le ospiti.

Azadeh Akhlaghi, serie T__moin oculaire, 2012) (Courtesy of the Artist)
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SPIAZZANTI, IN PARTICOLARE, le immagini a colori di Dadbeh Bassir (Tehran, 2005-2014) che si avvale di uno specchio posto perpendicolarmente all’obiettivo della macchina fotografica per ricreare una visione urbana che è la proiezione emotiva di un paesaggio insieme reale e mentale, mentre Mehran Mohajer (figura chiave anche per la sua attività di docente di fotografia all’Università di Tehran) in Tehran Undated (2014) affida al foro stenopeico il suo sguardo critico.

«QUESTO APPARECCHIO necessita di un tempo di esposizione molto lungo, attraverso cui una città come Tehran, sovrappopolata e caotica, appare totalmente deserta – spiega Mohajer – Mi interessa come una delle caratteristiche della fotografia, il tempo, possa determinate il cambiamento dello spazio. Per me è anche un omaggio a Eugène Atget che immortalò Parigi e i suoi mutamenti nel passaggio da un secolo all’altro. Inconsciamente ho registrato le trasformazioni di Tehran che anticipano il futuro. Ho usato il foro stenopeico sia per sperimentare (dal punto di vista della tecnica e concettuale), ma anche perché è un apparecchio semplice, facile da usare in una città dove non è così semplice scattare fotografie per strada. La polizia, e pure la gente comune, non è a proprio agio quando vede la macchina fotografica. Nel mio caso si è trattato di stare in piedi, a lungo, poggiato a un muro, per tenere fermo l’apparecchio. La macchina fotografica passava inosservata e la gente mi prendeva semplicemente per matto!».

Tanti capitoli indicano il percorso della mostra che tocca anche questioni legate ai cambiamenti climatici e all’inquinamento, concludendosi con un doveroso omaggio ad Abbas Kiarostami e alla sua poesia del cinema, sia attraverso gli scatti della serie White (1978-2004), un paesaggio avvolto in una coltre di neve, che nelle foto realizzate da Jassem Ghazbanpour sul set di E la vita continua. Fino allo scatto magistrale di Abbas, in cui il regista guarda Tehran dalle colline tutt’intorno, durante le riprese de Il sapore delle ciliegie (Palma d’oro a Cannes nel 1997), come fosse un guizzo finale. Uno sguardo che è una finestra aperta sul mondo.