Una forzatura dopo l’altra, governo e maggioranza vanno avanti a colpi di accetta, imponendo al Parlamento una riforma della Costituzione che di fatto non può essere modificata. Un trucco, un emendamento tirato fuori dal cilindro del Pd all’ultimo secondo e l’intero art.1 della riforma, quello che regola le funzioni del futuro Senato, diventa blindato come una cassaforte.

Il problema erano quei 19 voti segreti che il presidente del Senato aveva deciso di concedere all’opposizione. Troppi per il governo, e troppo alto il rischio. Grasso, in realtà, non si era limitato ad accogliere le 19 richieste di voto segreto. Dopo aver sforbiciato ulteriormente gli emendamenti all’art. 1, concedendo di intervenire solo sulle parti modificate dalla Camera ed eliminando così alcune centinaia di proposte di modifica, aveva dichiarato inammissibili anche quelli che, come già successo ai tempi dell’approvazione dell’Italicum, avrebbero veicolato il cosidetto “canguro”. Quelli cioè che avrebbero impedito di votare tutti gli emendamenti successivi.

A sorpresa, però, presenta un emendamento-tagliola il dem Roberto Cociancich, renziano della prima ora, già presidente della Conferenza internazionale cattolica dello scoutismo, poco conosciuto dai senatori, tanto che il capogruppo Fi Romani gli chiede di alzare la mano «così conosciamo anche lui oltre che il suo emendamento». Il testo di Cociancich è quasi identico a quello della presidente della commissione Affari costituzionali Finocchiaro, che riprende l’accordo raggiunto con la minoranza democratica sulle funzioni future di palazzo Madama. Tra i due emendamenti la differenza però c’è: in termini di regolamento se non di sostanza. Essendo quello di Cociancich sostitutivo dell’intero articolo, comporta la decadenza di tutti i voti successivi, inclusi quelli segreti. Grasso, pur avendo sterminato gli altri canguri, questo lo salva. Il governo, un secondo dopo, esprime parere positivo solo su due emendamenti: quello della Finocchiaro e quello gemello dello scout. Il Pd chiude la trappola chiedendo che i due testi fotocopia siano messi al voto insieme.

Mezza aula esplode e volano parole grosse. Calderoli denuncia l’ «attentato alla democrazia», De Cristofaro (Sel) parla di «truffa», Romani di «intollerabile burla», la fittiana Bonfrisco di «volgare macelleria». Molti rinfacciano al presentatore dell’emendamento-mannaia l’essersi prestato alla manovra ordita dal governo. Il capogruppo Pd Zanda si scalmana lo stesso e incendia ulteriormente l’aula con un intervento che è un modello di arroganza. «Da 20 minuti state insultando un galantuomo. È la prova che non volete un dibattito sulle riforme». Detto da lui è un po’ forte: e infatti partono i fischi. Scatenato, il capogruppo del Pd, che qualcuno definirà poi apertamente «un prestanome», non si ferma: «Questo dibattito voi non lo meritate e noi le riforme le approveremo comunque». Sembrano parole dettate dall’ira. Invece rispecchiano fedelmente il pensiero e il concreto agire del governo e delle sue obbedienti truppe parlamentari: il Parlamento non merita dibattiti, e non deve impicciarsi più di tanto.

I pochi emendamenti che precedono la ghigliottina dello scout vengono falcidiati facilmente col voto palese, a partire da quello soppressivo dell’intero articolo firmato sia dalla presidente del Misto-Sel De Petris che dal grillino Crimi e quindi, a ruota, quello, presentato ma poi ritirato in buon ordine della minoranza Pd e resuscitato dall’M5S, che mirava a restituire funzioni non irrisorie al Senato. Tre senatori della minoranza votano in dissenso.

Ormai resta solo una mina. C’è un emendamento Calderoli che affiderebbe al Senato poteri concreti sui temi etici. Deve essere votato segretamente e capita prima della bomba Cociancich. Poco male, la segretezza riguarda solo una parte dell’emendamento: basta bocciare la proposta di voto per parti separate e voilà, il gioco è fatto. Infatti viene bocciato. Un senatore dem, Casson, vota in dissenso. Renzi esulta: «Con 380mila emendamenti di tutto si può parlare tranne che di mancanza di diritti dell’opposizione, ma le riforme le faremo lo stesso». Un ddl costituzionale partito dal governo, l’aggiramento della discussione e del voto in commissione, la conquista certa di una maggioranza ricorrendo ai buoni uffici di Verdini, il taxista che traghetta frontalieri dal regno decaduto di re Silvio alle terre del nuovo re Renzi, il trucco con cui sono stati ieri falciati emendamenti e voti segreti: tutto ciò non gli sembra ledere i diritti di nessuno. Nel merito, la riforma imposta toglierà al Senato ogni ragione di essere. Ma nel metodo il governo ha già provveduto: non col Senato ma con l’intero Parlamento.