Contenuto netto, 30 grammi; conservata al naturale, prodotta e inscatolata nel mese di maggio 1961: l’etichetta è esplicita nel dichiarare l’essenza del prodotto. Merde d’artiste è un’opera che probabilmente è andata al di là delle aspettative dello stesso Piero Manzoni, che la realizzò come multiplo d’artista. Novanta scatolette firmate e numerate, oggi ambitissime dai collezionisti che sono pronti a sborsare fino a 275mila euro (nel 2016 all’asta milanese Il Ponte). Al di là del valore di mercato si tratta di un’opera-chiave anche nel percorso della mostra RE.USE. Scarti, oggetti, ecologia nell’arte contemporanea (a cura di Valerio Dehò) che si snoda a Treviso in tre differenti luoghi espositivi: Museo Santa Caterina, Museo Casa Robegan e Ca’ dei Ricchi (fino al 10 febbraio 2019). Infatti è proprio la «merda d’artista» di Manzoni a indirizzare le riflessioni in un territorio molto più ampio di quello della categoria «arte». Il ruolo (e il corpo) dell’artista sono analizzati in relazione all’autoreferenzialità dell’oggetto/opera, ricorrendo ad un linguaggio ambiguo che ritroviamo anche in altri lavori che fanno parte della collettiva, in particolare Wrapped Kunsthalle Bern, Project (1972) di Christo. Questo tipo di impacchettamento che consente un accesso linguistico-interpretativo fortemente veicolato dall’immaginazione del singolo individuo è un’eredità dadaista e surrealista al pari del ready-made con cui venivano isolati, risemantizzati e ricontestualizzati gli oggetti della quotidianità con la loro «carica espressiva, demistificatoria, blasfema», come sosteneva Duchamp. Con le sue sperimentazioni Marcel Duchamp, come Man Ray, ha influenzato le correnti artistiche successive – dal Nouveau Réalisme, Pop art, Fluxus, fino alla Cracking Art – con un passaggio intermedio nella declinazione neo consumistica degli anni ‘80 che, come scrive Carlo Sala nel catalogo che accompagna la mostra (Silvana Editore) sarebbe una contemporaneità satura, visivamente parlando, in cui le pluralità «si sono intrecciate con vari fattori, a cominciare dalla nuova sensibilità ecologica sostenuta da una feconda ricerca teorica in ambito filosofico; le crepe al modello capitalista lasciate dalla crisi economica scoppiata un decennio fa con il fallimento della banca d’affari Lehman Brothers hanno costretto ad un ripensamento degli stili di vita, entro cui rientra anche un cambio di paradigma sui cicli di produzione e di consumo di beni, come proposto ad esempio dell’economia circolare. In secondo luogo, l’utilizzo osmotico delle tecnologie tipico di questi anni è contraddistinto dalla creazione e messa in circolazione di contenuti digitali (dove l’immagine riveste il ruolo principale) in tempo reale, che pur manifestandosi in un uno stato immateriale e liquido, hanno portato ad un sovraffollamento iconico associato ad un diffuso sentimento di horror pleni».

L’elemento quantitativo, che è alla base di un sistema in cui il capitalismo va a braccetto con il consumismo è affrontato scientificamente: le tabelle riportano numeri e dati. Dalla A di Albanese alla V di Vitone (in mezzo ci sono Borghi, Burri, Favelli, Hirst, Kounellis, Kragg, Mauri, Monk, Parmiggiani, Pistoletto, Rotella, Spoerri, Tessarollo) le tecniche usate dagli artisti sono spesso associate al concetto di accumulo di oggetti e materiali di recupero e realizzate con scarti: solo in minima parte fotografie, video e un unico disegno su carta. Nel passaggio dalla «coscienza ecologica al trash creativo» c’è, comunque, un intento poetico anche quando la critica nei confronti della società diventa più esplicitamente denuncia. «Anche la coscienza ecologica ha bisogno di bellezza», afferma Valerio Dehò. Bellezza è sinonimo di libertà quando nell’opera Finestra III (Isola dell’arte) del 2018 Luca Vitone, usando polvere e acquarello, apre finestre che per il curatore sono «elementi di premonizione, isole di temi futuri, zone intermedie tra presenza e assenza».