La campagna sulle scarcerazioni facili è ricca di imprecisioni, generalizzazioni, nonché profondamente rischiosa. Rischia di fare molto male a tutta la comunità penitenziaria. In primo luogo alla gran massa dei detenuti che con la mafia non c’entra nulla e che ora potrebbe subire un’ondata di chiusure.

Va ribadito che l’affollamento carcerario non consente quel distanziamento fisico che i virologi ritengono decisivo per evitare la diffusione del contagio. La riduzione della popolazione detenuta avvenuta negli ultimi due mesi – da 61 a 53 mila – è frutto, per parti più o meno uguali, di provvedimenti di detenzione domiciliare e mancati nuovi ingressi. Se non ci fosse stata questa riduzione globale nei numeri, ancora insufficiente visto che in alcune celle si vive in sei in meno di 20 metri quadri, forse avremmo avuto decine di nuovi focolai ingestibili, al pari delle Rsa.

In secondo luogo la campagna sulle scarcerazioni, così come è condotta, fa male a tutti quei direttori, educatori, medici, poliziotti penitenziari che, con coraggio, umanità e abnegazione si sono impegnati per trovare soluzioni alloggiative esterne per i più vulnerabili e per accelerare le procedure di liberazione. In terzo luogo fa tanto male allo stato di diritto – che si fonda sull’indipendenza del potere giudiziario – e a tutti quei giudici – di cognizione e sorveglianza – che si sono affidati a ragionevolezza e senso istituzionale, assumendo provvedimenti di deflazione utili ad evitare quella deriva inumana che, ad esempio, nel mondo penitenziario Usa ha prodotto finora numeri esplosivi: 23.500 detenuti positivi, 323 morti tra i detenuti e 35 tra le guardie. Se non ci fossero stati quei giudici, quei direttori, quegli educatori, quei medici e quei poliziotti ora non staremmo a discutere di mafia ma di morti e terapie intensive.

La campagna sulle scarcerazioni è imprecisa in quanto si mischiano cose molto diverse tra loro. I detenuti sottoposti al regime 41-bis scarcerati sono solo tre. Gli altri 373 detenuti di cui si parla non erano stati ritenuti così pericolosi dalla magistratura anti-mafia da essere sottoposti al regime duro. Più della metà era in custodia cautelare e dunque si trattava di persone presunte innocenti.

Il primo aprile scorso, il procuratore generale presso la Corte di Cassazione inviò una nota a tutti i procuratori generali sul tema della custodia cautelare sollecitando «opzioni…per ridurre la presenza in carcere…allo scopo di contribuire alla miglior prevenzione del rischio di contagio da coronavirus durante la fase emergenziale». La restante parte ha avuto provvedimenti di detenzione domiciliare per motivi di salute. Si sono espressi oltre cinquanta magistrati di sorveglianza. Spero non si dubiti di tutti loro.

Siamo quasi a metà maggio e non sono venute meno le ragioni per ottenere una riduzione della popolazione detenuta per ridurre i rischi di contagio nelle carceri visto che ci sono ancora 7 mila persone in più rispetto ai posti letto regolamentari. Inoltre, sempre per il gusto della correttezza informativa, si deve rammentare che: 1) le misure previste dall’articolo 123 del decreto legge cura Italia sulla detenzione domiciliare sono a tempo determinato e comunque escludono i reati di cui all’art 4-bis tra cui quelli di mafia; 2) tutti i provvedimenti dell’autorità giurisdizionale fondati su motivi di salute possono essere modificati o revocati solo dalla stessa magistratura; 3) nella legislazione italiana non sono ammessi provvedimenti retroattivi in materia penale; 4) non ci potrà mai essere una norma che neghi per sempre il diritto alla salute ad alcune categorie di detenuti perché sarebbe incostituzionale.

Infine, quando ci si indigna per un 85enne malato che va agli arresti domiciliari si ricordino le parole di papa Francesco: «Nel Codice penale del Vaticano non c’è più l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta».