Lo Scarabattolo di Domenico Remps (1690), proveniente dal Museo dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, è l’immaginifico e naturale preludio alla mostra Cabinets de curiosités, curata da Laurent Le Bon assieme a Patrick Mauriès, fino al 3 novembre presso il Fonds Hélène & Édouard Leclerc pour la culture a Landerneau. Il gustoso trompe-l’œil del pittore tedesco trapiantato a Venezia proietta infatti il visitatore in una Wunderkammer, fungendo da varco d’accesso all’imprevedibile e sbalorditivo labirinto «disegnato» da Jasmin Oezcebi negli ampi spazi dell’ex Convento dei Cappuccini. Una parte dell’esposizione è allestita invece nell’adiacente Cappella del 1642, restaurata nel 1986 dopo aver servito per vent’anni da deposito del primo supermercato Leclerc.
Nata dall’incontro tra Michel-Édouard Leclerc con Le Bon e Mauriès, la rassegna si propone di offrire una nuova prospettiva su quei luoghi della cultura rinascimentale e barocca dove i collezionisti erano soliti affastellare mirabilia e che, caduti nell’oblio durante l’Illuminismo, sono stati parzialmente riesumati ai primi del Novecento dalla poetica nostalgia di surrealisti e amanti del bizzarro. Come spiega Le Bon nel catalogo (Fonds Hélène & Édouard Leclerc pour la culture, pp. 361, euro 37,00), l’esposizione si interroga sulla poliedricità dello sguardo: «guardiamo un oggetto scientifico o un oggetto artistico? Un oggetto naturale o un oggetto artificiale? Si guarda soprattutto qualcosa che ci meraviglia. Il nostro mestiere consiste nel mostrare questi oggetti nella loro forza originaria. Ciò ci riporta a una delle nozioni fondamentali di museo, in un frangente in cui parliamo di rivoluzione digitale e in cui il Web è divenuto un immenso cabinet de curiosités».
I capolavori della Galleria Kugel
Per i due curatori, la mostra funziona un po’ come un «metagabinetto di curiosità», in cui la somma prevale sulle singole parti. Assieme al gusto dell’eccezionale e del fantastico, il «montaggio» è infatti una delle dimensioni essenziali di una camera delle meraviglie, e in questo senso la scenografia progettata da Oezcebi risponde esattamente agli intenti di Le Bon e Mauriès, poiché costringe il pubblico a muoversi in una scacchiera solo in apparenza ordinata, disponendo come unica bussola dello stupore. Non vi è infatti altro raccordo tra gli psichedelici scarabei del Muséum national d’histoire naturelle di Parigi che sembrano usciti da una vetrina di Cartier e gli straordinari orologi automatici della Galleria Kugel, capaci di battere il tempo dell’immaginario collettivo, come quel Bacco in bronzo dorato e argento (1590-1600) che porta in trionfo la sua (e nostra) ebbrezza.
Ma se gli oggetti rassembrati dalla dinastia di antiquari che rimonta a Elie Kugel sono considerati a tutti gli effetti dei capolavori, obiettivo non secondario dei cabinets de curiosités era quello di istruire. Non a caso, dunque, è stata trapiantata a Landerneau una cellula del Muséum, il cui nucleo primigenio – fin dalla nascita nel XVII secolo quale Jardin du Roi – era costituito da erbari, fossili, scheletri di mostri e abiti di piume. Nondimeno, questi reperti naturali strani e curiosi venivano raccolti e conservati perché attraenti, così che diventa difficile negare il valore estetico di un ramo di corallium rubrum pescato nei fondali del Mediterraneo nel lontano 1758. E se la composizione di frutti esotici modellati con cera dal capitano della marina Robillard d’Argentelle tra il 1802 e il 1826 tradisce – oltre alla precisione scientifica – una velleità artistica, si prova la medesima ammirazione davanti alle micro-architetture dei nidi costruiti da api solitarie e colonie di formiche appartenenti alla specie Azteca muelleri.
Al vivace mondo dei naturalia si connette Théo Mercier, che nel catalogo afferma: «Un gabinetto è anzitutto una collezione rivelatrice per me, perché ogni oggetto è suscettibile di diventare una scultura, un progetto, un’opera d’arte sotto il mio sguardo che lavora. (…) non colleziono giusto per guardare e riguardare, colleziono per guardare e trasformare». Le collezioni «in movimento» di Mercier provocano straniamento rispetto all’immobilità dei gabinetti di una volta, eppure ritroviamo nelle sue mensole oggetti archetipici, che, come specchi sociologici e etnologici, detengono la formula alchemica di un’epoca o di una cultura. A Landerneau, Mercier mette in scena un gabinetto fantasmagorico, rivolto nello stesso tempo al passato e al futuro, dove gli oggetti della sua collezione personale vengono affiancati da riproduzioni sproporzionate di elementi fossili. Nello scaffale/teatro in cui colloca le sue spiazzanti metamorfosi c’è la profondità del mondo, il vertiginoso diorama in cui cadiamo penetrando gli schermi dell’era digitale.
Un altro artista invitato da Le Bon e Mauriès a confrontarsi con la rinascita dei cabinets de curiosités è Miquel Barceló. Le grandiose reliquie animali raccolte viaggiando da Maiorca (sua terra d’origine) a Roma e al Portogallo, dall’Africa all’Oceania passando per i mercati delle pulci, formano una sorta di inventario magico, un insieme di potentissimi talismani da utilizzare in maniera attiva. Che si tratti di una figurina in miniatura – altra sua ossessione – o di un’impressionante piovra, tutto per Barceló possiede un magnetismo da sfruttare. Gli oggetti, modelli per il disegno o materiali da scomporre e ri-assemblare secondo la più recondita logica, danno così il loro contributo al caos universale.
Novecentesca Venus anatomique
All’interiorizzazione primitiva di Barceló fa da pendant la sezione dedicata al Musée de la chasse et de la nature di Parigi, che come quella consacrata al Conservatoire d’anatomie della Facoltà di Medicina dell’Università di Montpellier, può suscitare ribrezzo misto a una disturbante seduzione. I trofei animali e umani che questi gabinetti ormai démodé offrivano allo sguardo di curiosi e scienziati, parlano oggi a un pubblico sensibile e sensibilizzato, cui ripugnano le corna strappate a un cervo nel Seicento ma che s’incanta davanti alla novecentesca Venus anatomique e alla contemporanea statua in cera dei Fratelli Tocci – entrambe le sculture sono state classificate come monumenti storici nel 2004 –, testimonianze del desiderio di rendere tanto la perfezione del corpo umano quanto i «fenomeni» della natura delle opere d’arte.
Non ci si accommiata tuttavia da questa rassegna di successo – a dimostrazione che le antenne culturali cosiddette periferiche funzionano quando presentano programmazioni di qualità – senza una malinconica inquietudine. Due sono infatti le riflessioni che Le Bon e Mauriès riescono a stimolare. La prima riguarda la «pixelizzazione» del nostro tempo, che si contrappone alla realtà in tre dimensioni, analogica e moderatamente ritoccata, conosciuta sino alla fine del ventesimo secolo. L’altra è ben rappresentata dalle vetrine allestite in collaborazione con il Mucem di Marsiglia per celebrare la filosofia di Georges Henri Rivière (a cui il Mucem ha di recente dedicato una pregevole retrospettiva): utensili di lavoro, strumenti musicali, birilli appesi – secondo i dettami del pioniere della museografia europea – a fili invisibili, sono le sentinelle di saperi e tradizioni che vanno scomparendo, tracce di quell’arte popolare confinata nei solai che potrebbe salvarci dall’esercito di angoscianti clessidre con cui Jacques Attali ci consegna al declinare di un intenso e volutamente frastornante percorso.