Mentre rileggevo Luna di miele (uscito per la prima e unica volta nel 1945, e ora meritoriamente riproposto da La Nave di Teseo, € 17,00, pp. 174) mi chiedevo come sarebbe stato giudicato un romanzo come questo se non fosse stato scritto un «autore di genere», come viene ancora riduttivamente etichettato Giorgio Scerbanenco.
Si tratta di un romanzo conturbante, assolutamente originale nell’ambito della narrativa italiana coeva, che concede ben poco al facile intrattenimento. Al centro della storia c’è quello che oggi sarebbe rubricato come un tipico «femminicidio». Dopo l’ennesimo litigio, Alberto uccide Lena, sua moglie, di cui non era mai stato veramente innamorato. Il matrimonio tra i due era nato male fin da principio, dato che Lena aveva spinto Alberto a sposarla con l’inganno, simulando una gravidanza. Dal matrimonio all’omicidio trascorrono nove lunghi anni, in cui la relazione si logora e le piccole insoddisfazioni quotidiane (Lena si mostra sempre fredda davanti ai bisogni sessuali e sentimentali del marito) si sedimentano fino alla deflagrazione omicida. Del resto Alberto prima di essere costretto a sposarsi era innamorato di Eva, che continua a essere il suo unico vero amore, anche dopo l’infelice matrimonio con Lena. Questo funesto triangolo amoroso ci viene illustrato da un prete, don Paolo, il quale però è un narratore tutt’altro che imperturbabile: conosce bene sia Eva, sia la coppia Alberto-Lena (ne ha celebrato il matrimonio), ed è proprio il sacerdote a scoprire il cadavere della donna, poco tempo dopo l’omicidio. Nella sua interessante postfazione, Cecilia Scerbanenco ricorda che la figura di don Paolo fu probabilmente ispirata da don Felice Menghini, con cui lo scrittore era entrato in contatto nel 1944, durante l’esilio svizzero. Dalla corrispondenza tra Scerbanenco e don Menghini, risulta che quest’ultimo non apprezzò affatto il romanzo e ne fu anzi scandalizzato. D’altronde la reazione non deve stupire giacché Luna di miele poteva allora risultare scabroso non solo per un prete, ma anche per un comune lettore.
Con tono apparentemente scandalizzato (ma in realtà segretamente complice) don Paolo racconta la fuga di Alberto, il quale, dopo l’omicidio, si incontra con Eva e decide di rifugiarsi con lei in un piccolo e un po’ equivoco albergo. Don Paolo riesce a rintracciarli (senza però avvertire la polizia) e li segue fino all’albergo. Per poterli spiare da vicino prende una stanza affianco alla loro: l’intento sarebbe quello di salvarli, o almeno di salvarne l’anima, ma il suo voyeurismo appare sospetto. Don Paolo diventa il cronista di questa breve quanto intensa luna di miele (ma sarebbe meglio dire, citando un titolo celebre, luna di fiele!), in cui i due amanti «dovevano trascinare a ogni passo il peso di piombo del cadavere di Lena». Il sacerdote racconta nei minimi particolari gli amplessi della coppia, l’esplosione dei sensi, con un erotismo molto spregiudicato per l’epoca.
Sotto questo aspetto potremmo leggere Luna di miele non solo come un noir (prodromico alle classiche storie di Duca Lamberti), ma anche, al tempo stesso, come uno dei più singolari romanzi erotici del Novecento italiano. Nella camera d’albergo, trasformata in alcova, Alberto sfoga gli impulsi sessuali repressi durante la convivenza matrimonale con la fredda Lena. La narrazione procede per flussi di coscienza, flashback, monologhi interiori che toccano temi morali, teologici, filosofici, non senza sfumature visionarie, a tratti psichedeliche («come sotto l’opera di stupefacenti creavo mondi artificiali», afferma a un certo punto il sacerdote-narratore). Insomma è un romanzo giocato non tanto sulla trama (non succederà quasi più nulla, fino al colpo di scena finale), ma sulle atmosfere di erotismo torbido, sulle ambiguità morali di un sacerdote inquieto.
In Luna di miele Scerbanenco spinge il lettore a comprendere le ragioni interiori di tutti i personaggi (anche quelle dell’omicida Alberto) ma non assolve nessuno: né Lena (che ha ordito un inganno per farsi sposare e ha contribuito a rendere la vita coniugale con il marito un inferno), né don Paolo, che si lascia contagiare dal male, fino a esserne moralmente travolto.