«La nostra è una femminilità estrema, radicale, sovversiva, spettacolare, prorompente, esplosiva, plateale, sporca, mai impeccabile. Femminista, politica, precaria, combattiva, scomoda, arrabbiata…». È un urlo osceno e graffiante, quello delle transfemministe queer che prendono parola in Diventare cagna di Itziar Ziga, (Golena edizioni, pp. 128, euro 15), per sua stessa definizione femminista occidentale, situata ai margini del femminismo e dell’Occidente. Un racconto polifonico, dove la voce dell’autrice e quella delle sue «cagne» – donne trans e bio, frocie, lesbiche, etero-insubordinate – si somma e si sovrappone. Una riflessione corale e non dissonante, dove il percorso di Ziga tra maschile e femminile e fin dentro le pieghe del desiderio erotico e della sessualità è al contempo il suo percorso e il percorso di tutte: espressione autonoma dell’identità di genere e della sessualità, di bisogni e desideri. Ci si può infatti più o meno rispecchiare nell’iperfemminilità sconcia delle «cagne» che prendono voce nel libro ma non si può fare a meno, nel corso della lettura, di ripercorrere i sentieri più o meno battuti e della propria soggettività politica e (eventualmente) femminista, sin dentro le (spesso) inevitabili sbavature della propria costruzione di genere, sin dentro la propria sessualità e il desiderio.

Il testo è «un esercizio di visibilizzazione ludica e politica», più individuale che collettivo per la verità. Un gioco aperto intorno al tema della femminilità, che intacca «la decenza e la sottomissione che ci vengono imposte col pacchetto femminilità». La donna decente e sottomessa ha svolto storicamente un ruolo cruciale nel sistema capitalista: la moglie/mamma che, marxianamente, garantisce ogni giorno che il lavoratore possa tornare a vendere sul mercato la propria forza lavoro. In questo senso Ziga sembra dirci che per leggere la femminilità occorre calarla all’interno dei rapporti di produzione. La femminilità ha dunque un portato di classe.

L’invenzione del piacere

All’interno di questo approccio materialista, va anche collocata la lettura che Ziga propone delle sante mistiche: Sant’Agata che serve il suo seno adolescenziale al padre su un vassoio, per non essere data in sposa a un uomo a lei sconosciuto, e Santa Liberata che preferisce farsi divorare dall’anoressia piuttosto che accettare un matrimonio imposto. «Biodonne che si tagliano le tette e a cui cresce la barba» per difendere il proprio destino dalla violenza patriarcale. Perfettamente in linea, dunque, con i corpi eccessivi e trasgressivi delle altre cagne.

È proprio il corpo, infatti, nella sua dimensione più politica, l’indiscusso protagonista del libro: come campo di battaglia. Da una parte il corpo sessuato, disponibile e penetrabile della norma eterosessuale, dall’altra quello prorompente e godereccio delle iperfemmine di Ziga. Una femminilità che non è dolcezza ma autonomia, anche violenta se necessario. Una femminilità che si fa parodia di se stessa. Perché così «è più divertente!»

È un corpo erotico che sfida apertamente la costruzione del genere e le sue gerarchie, che gode e «si stropiccia». Il corpo del «do it your self», che crea e inventa il suo piacere. Il «nostro personale porno dissidente» lo definisce Ziga o, detto con Annie Sprinkle alla cui fica è dedicato uno dei capitoli del libro, il nostro «postporno»: la produzione di materiale sessualmente esplicito ma più ironico e politico, «fatto per eccitare, ma non solo gli uomini» ed anche per pensare, sperimentare, dialogare. È la costruzione di sé a partire dal piacere che si fa «luogo peculiare da cui partire per fare politica». Anche se poi, il passaggio a una dimensione politica più complessiva che si fa processo collettivo di trasformazione dei rapporti sociali e produttivi, resta poco indagato nel libro.

Il corpo è anche al centro della lettura che Ziga propone della disputa, sempre attuale, intorno all’uso dello hijab, qui messo in relazione alla minigonna su cui tante aberranti sentenze giudiziarie sono state scritte. Lo hijab, specifica Ziga, è un fazzoletto e non un velo. Indossarlo non è velarsi come atto di sottomissione. È piuttosto un gesto di autodeterminazione perché «il patriarcato non è nascosto nello hijab ma nella proibizione o obbligatorietà di indossarlo» e perché, a volte, celare il proprio corpo può essere un importante alleato, come ha ampiamente evidenziato Frantz Fanon e come tante di noi, e le stesse cagne del libro, hanno avuto modo di sperimentare nel corso, ad esempio, di passeggiate notturne in solitaria.

Più problematico, invece, il modo in cui il libro affronta il tema della prostituzione. Senz’altro azzeccata è la riflessione intorno alla distinzione eterodiretta tra sposa e puttana: «le due condizioni socioeconomiche riservate alle donne nell’ordine eteropatriarcale». E convince la critica aperta alla retorica sulla «decenza» come ricerca, da parte delle donne di una qualche forma di riconoscimento all’interno di quell’ordine sociale che le vuole subordinate e sottomesse. Una femminilità giocata in opposizione allo stigma della «puttana» che colpisce le donne autonome, e si aggrappa al risicato privilegio concesso alle «signore» di essere «schiave legittime».

L’ombra della mercificazione

Meno convincente è l’insistenza sull’autonomia e l’autodeterminazione nello scambio economico sessuale del lavoro della prostituita. Non solo perché quando si parla di lavoro non si può omettere il tema dello sfruttamento. Ma soprattutto perché in tale scambio va colto il dispositivo per eccellenza della subordinazione femminile: una forma di relazione profondamente sbilanciata dentro precisi rapporti di potere segnati dal binarismo gerarchico dei rapporti di genere. Non cogliere ciò ci espone al rischio di reinterpretare autodeterminazione e libertà sessuale in chiave neoliberista ovvero come mercificazione e dunque come l’impossibilità di far coincidere la nozione di scelta con quella di libertà.

Detto questo, tuttavia, resta il merito di Ziga di aver affrontato un tema, quello della prostituzione che fatte salve alcune eccezioni, resta uno dei grandi tabù del femminismo.

Insomma, Diventare cagna è un libro senz’altro pop ma non per questo ordinario. Una riflessione colta e pungente, dissacrante e provocatoria che vuole soprattutto decostruire e riassemblare pratiche e immaginari che hanno a che fare con la dimensione politica del corpo e del genere. Un libro (pubblicato per la prima volta in Spagna nel 2009) la cui traduzione appare più che mai opportuna. Perché all’epoca del «ladylike» e dell’incubo gender, diventare cagna può essere un’efficace opzione politica da praticare insieme.