Nel caso in cui non fosse ancora chiaro, Westminster sa cosa non vuole, ma non sa cosa vuole. Lo conferma il secondo atto della trilogia «tre voti in tre giorni», che si è concluso con 321 voti contro 278 (maggioranza di 43). La Camera ha dunque rigettato un’uscita dall’Ue senza accordo, a sedici giorni dall’ora Brexit, fissata il 29 marzo, e ventiquattro ore dopo la seconda, altrettanto sonora, sconfitta dell’accordo di Theresa May, crocefisso al fantomatico backstop. La decisione non ha ancora valore legale ma potrà ottenerlo. Corbyn ha ribadito le soluzioni per un’uscita “morbida” proposte dal Labour e la necessità di sottrarre a May il controllo.

E ALLORA OGGI terzo atto, con il voto sull’estensione dell’articolo 50. Di due o di nove mesi: nel primo caso il Paese dovrebbe partecipare alle elezioni europee, nel secondo caso anche alle proprie elezioni politiche anticipate. Solo che la decisione finale spetta sempre a un’Ue minacciata dai ducetti sovranisti e che comincia a perdere la pazienza.

Il no a un no deal era previsto. Il sogno dei brexittieri della filibusta è dunque in frantumi? Non esattamente. Quello che decide Londra deve essere, appunto, validato da Bruxelles. Quanto al voto di ieri, la mozione del governo ammetteva che «uscire senza un accordo resta la norma predefinita nella legge britannica ed europea, salvo che questa Camera e l’Ue non ratifichino un accordo» in caso di estensione dell’articolo 50. Insomma, non eliminava del tutto il rischio di Brexit dura, hard, senza accordo. Per questo era stato presentato un emendamento dai remainer bipartisan per escludere davvero questo rischio. Passato un pelo: 4 voti, 312 a 308.

Per Theresa May non cambia nulla. Resta aggrappata al suo accordo anche se i suoi slogan, sbandierati ancora solo mesi fa, sono tornati a perseguitarla. No deal is better than a bad deal millantava, prima di cominciare a tessere lei stessa la tela che ormai la soffoca. E ora che il suo deal è stato bocciato due volte perché considerato bad da centinaia di parlamentari, molti dei quali del suo stesso partito, è stata costretta ad altre due ammissioni d’impotenza: aveva dichiarato in anticipo che avrebbe votato contro il no deal, e poi ha concesso il voto “libero” al suo partito, ormai disintegrato più che diviso, cercando di evitarne almeno la decomposizione. Altrimenti i brexittieri avrebbero dato le dimissioni in massa dal suo governo.

Ma il post-May è ufficialmente in palio, e i suoi stessi alleati si candidano più o meno apertamente a succederle. Come il cancelliere Hammond, che ieri ha usato la presentazione di una finanziaria irrilevante – il governo di cui fa parte potrebbe tranquillamente non esistere tra una manciata di settimane – per raccomandare una condotta più conciliatoria con l’Ue, altra dall’accordo della sua leader, dunque sconfessandolo. Col ravvivare la rivalità tradizionale fra gli inquilini del numero dieci e del numero undici di Downing Street annunciava informalmente la propria disponibilità al trasloco a number ten.

 

MENTRE NELLA SUA BOLLA Westminster continua la prova d’orchestra felliniana, nel resto del Paese i senza fissa dimora continuano a morire per strada, aumenta l’uso dei banchi alimentari, dilaga la povertà infantile, le scuole non riescono a pagare gli stipendi.

Ieri, oltre al presidio fisso di attivisti pro e contro la British exit è arrivata la manifestazione delle «Donne contro la diseguaglianza pensionistica» che protestavano contro la decisione di Hammond di aumentare l’età pensionabile per le dipendenti pubbliche da 60 a 66 anni. In un Paese che ha improcrastinabile bisogno di un governo laburista, le defezioni degli Umunna e delle Berger, che invece di sostenere il proprio leader in elezioni dove la vittoria è realisticamente a portata di mano cercano di assassinarlo politicamente usando l’antisemitismo è, oltre che meschino, da manuale di cretinismo politico.

QUANTO A THERESA MAY, la leader più umiliata e ostinata della storia della democrazia, ha sopportato anche questa. Ma se non si fa da parte, non è perché ha eliminato l’ego: è perché resta, andreottianamente, attaccata a un potere da cui adora lasciarsi logorare. La voce le tornerà e si barricherà a Downing Street.