«Quando sono iniziati bombardamenti – racconta Aleqsandr Aleqsanyan, un anziano di 67 anni di Martakert che ha perso una gamba nella guerra del ’92 – non ci aspettavamo di dover abbandonare tutto, negli ultimi trent’anni ci sono stati molti episodi simili, lasciavamo la città per qualche giorno e poi tornavamo».

INVECE QUESTA VOLTA è stato diverso. «Il 27 settembre, alle sette di mattina, abbiamo scoperto che la guerra era iniziata, ci siamo attrezzati per nasconderci in cantina insieme ad alcuni vicini, i bambini erano terrorizzati, c’era molta confusione. L’indomani abbiamo ricevuto l’ordine di evacuare, i droni erano troppo vicini ormai». A metà giornata l’intera regione di Hadrut, a sud dell’Artaskh, vicino al confine con l’Iran, era un campo di battaglia.

Le truppe azere con il supporto turco hanno lanciato un’offensiva massiccia preceduta da intensi bombardamenti effettuati dai droni di ultima generazione. A differenza dei loro predecessori questi apparecchi volano ad altitudini maggiori, non li vedi arrivare. «Quando senti il sibilo – racconta Arsen Vardanyan, un soldato armeno impegnato sul fronte nord – vuol dire che hai cinque secondi per spostarti».

«SIAMO SCAPPATI con quello che avevamo addosso, non siamo riusciti a prendere niente – continua Aleqsandr -, in macchina con me c’erano altre dodici persone, compresi i miei tre nipoti e i figli dei miei vicini. Abbiamo percorso la strada insieme ad altre tre auto, più piccole, con otto persone ognuna». Sono donne, bambini e anziani nel centro per rifugiati di Metsamor, dove ho incontrato Aleqsandr non c’è un solo uomo di età compresa tra i 18 e i 60 anni.

A inizio dicembre l’Armenia ha dichiarato 2425 perdite, l’Azerbaijan 2783, ma i dati sembrano sottostimati in quanto la Croce Rossa non ha avuto il permesso di accedere alla linea del fronte e le ong locali, come Future Is Now parlano di numeri molto più alti.

Inoltre, c’è la questione ancora aperta dei «dispersi», che ufficialmente non rientrano nel novero delle vittime, ma dopo due mesi di silenzio le famiglie hanno ben poca speranze.

«MIO MARITO È STATO INVIATO nella regione di Talish – spiega Marine, la figlia di Aleqsandr -, dal 27 a oggi non ho avuto più sue notizie, l’ultima telefonata che mi ha fatto si è interrotta bruscamente e poi non sono riuscita più a parlarci; anche mio fratello è stato richiamato, così come molti altri; quando siamo scappati da Martakert non c’erano praticamente più uomini in tutto il mio quartiere». Marine ha tre figli che mentre parla guardano un video da un cellulare insieme ad altri bambini assorti. Nella stanza dove sono seduti vivono in tredici, tutti profughi della stessa città accomunati da quella fuga notturna.

MARINE SERVE UN TÈ, l’ospitalità è un valore sacro da queste parti, nonostante le angustie e i trent’anni di battaglie iniziate con la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Da quando nel 1991 il Nagorno-Karabakh si è dichiarato indipendente dall’Azerbaijan, recuperando l’antico nome armeno di Artsakh, per questa gente non c’è stata più pace: due anni di guerra tra ’92 e ’94 e decine di incidenti più o meno prolungati fino allo scorso settembre, quando le truppe azere con l’ausilio turco hanno deciso di rientrare in possesso dei territori persi nella prima guerra.

Aleqsandr beve e poi racconta quasi sottovoce, forse per non farsi sentire dai bambini, la notte del 28 settembre: «Era buio pesto e c’era molta nebbia, siccome avevano chiuso la via normale siamo stati costretti a passare per le montagne, le curve non finivano più. Nella macchina c’era a malapena lo spazio per cambiare le marce, ma per fortuna siamo riusciti ad arrivare a Vardenis (in territorio armeno, ndr)».

Angela, che guidava una delle altre macchine, inizia a piangere al ricordo del rumore dei droni che li sorvolavano costantemente e colpivano i ponti.

Dopo aver constatato la situazione nel centro per rifugiati, Aleqsandr ha provato di nascosto a ritornare in Artsakh, ma la polizia lo ha bloccato al confine, nei pressi di Lachin. Mentre cercava di convincere gli agenti a farlo proseguire ha visto un pullman oltrepassare il check-point, percorrere duecento metri ed esplodere sotto i colpi di un drone andando in mille pezzi. «Potevamo essere noi… è stato un miracolo» conclude con la voce spezzata.

L’ARMENIA DI OGGI è piena di storie come questa. C’è chi racconta dei campi di melograno (il frutto nazionale) lasciati a marcire, chi della casa appena costruita, chi delle chiese e dei monasteri bombardati, ognuno dà una forma diversa alla propria perdita ma tutti, a un certo punto, finiscono per parlare di «quei poveri ragazzi». Spesso, entrando in una casa, capita di vedere dei fiori intorno alla foto incorniciata sopra la bandiera nazionale. E non serve mai chiedere, sono i parenti stessi a raccontare dove e quando. Il perché sembra essere evidente, come a dire che la vita nel Nagorno-Karabakh non è mai stata scontata, tantomeno la pace.

 

Un ragazzo con la foto del padre disperso in battaglia (foto di Sabato Angieri)

 

Tuttavia, per un Paese di due milioni e mezzo di abitanti come l’Armenia perdere tremila o più giovani vuol dire quasi rinunciare a una generazione e non è facile stimare quali saranno le conseguenze psicologiche, oltre che sociali ed economiche, di una tale tragedia.

«CI SONO FAMIGLIE che hanno perso tutto nella guerra del ’92 e oggi, dopo solo trent’anni, si ritrovano nella stessa situazione» mi spiega Sofik Avetisyan, psicologa 62enne di Erevan che dall’inizio della guerra ha iniziato a girare senza sosta villaggi e cittadine della sua regione, prestando assistenza nei centri per rifugiati. «Già una volta in una vita – prosegue – dovrebbe essere troppo, ora chi è in grado di spiegare a questa gente che bisogna ricominciare?».

Se si considera che a inizio novembre tutti i residenti dell’Artsakh erano potenzialmente dei profughi, arriviamo a più di 100 mila persone rimaste senza niente. Mane Tandilyan, ministro delle Politiche sociali dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, parla di circa 40 mila individui, provenienti principalmente dalle regioni di Hadrut, di Martakert e di Shushi: «I numeri sono in costante aggiornamento perché non è ancora chiaro chi ha fatto ritorno nelle zone rimaste sotto il nostro controllo e chi no». Per dare un’idea della situazione, delle sette provincie dell’Artsakh che si erano dichiarate indipendenti dall’Azerbaijan nel 1991, oggi solo Stepanakert (che ne era anche la capitale) e pochi territori limitrofi rimangono sotto il controllo del governo filo-armeno

 

LA GUERRA È RIUSCITA in due mesi a far crollare trent’anni di progetti e anche i più decisi a tornare nel Nagorno-Karabakh non riescono a nascondere l’incertezza sulle sorti di questa regione. Qualcuno, senza troppa convinzione, invoca ancora una sorta di arbitrato internazionale, ma gli scontri lungo la nuova frontiera di queste ultime settimane hanno dimostrato che probabilmente non è ancora stata detta l’ultima parola.

Intanto decine di migliaia di profughi aspettano di capire in che modo sopravvivere e il mondo sta a guardare l’ennesima tragedia del nuovo millennio senza prendere parte.