Una delle affermazioni interessanti fatte nel denso documentario di Alex Gibney We Steal Secrets: The Story of WikiLeaks era che –estradizione o meno- il dipartimento di stato Usa ha già vinto una battaglia fondamentale contro Julian Assange, e cioè quella dell’immagine, isolando il fondatore di WikiLeaks da quegli stessi organi mediatici istituzionali – New York Times, The Guardian e Der Spiegel- che hanno pubblicato il blocco più enorme e determinante dei documenti segreti postati sul suo sito. Demonizzandolo come una minaccia alla sicurezza nazionale e, allo stesso tempo, riducendolo alla statura di un irresponsabile egocentrico, una figura minore.

Assange non ha amato per niente il film di Gibney, che in realtà, a modo suo, gli rendeva onore e, soprattutto era «dalla parte» di WikiLeaks. Ma almeno su questo punto dovrebbe dargli ragione: negli States, l’hacker australiano non esercita il fascino mediatico e la passione politica che incontra per esempio in Europa. La cosa era era evidente alle cinque del pomeriggio di martedì, in una sala dell’East Village newyorkese, dove, a vedere The Fifth Estate c’erano solo tre spettatori. Stroncato dalla critica (38% di recensioni positive, secondo il Tomatometro di Rottentomatoes.com), disertato dal pubblico al primo week end d’uscita, The Fifth Estate è uno dei disastri al botteghino dell’autunno.

Un disastro non del tutto spiegabile: il film ha infatti un soggetto di forte attualità, attori bravissimi e un regista di «cassetta impegnata», Bill Condon (Gods and Monsters e due Twilight). È inoltre frutto di una cordata alta, che include la casa di produzione progressista Participant (i doc di Erroll Morris su McNamara e Rumsfeld, un film fatto in collaborazione con Occupy Wall Street, più Goodbye and Good Luck di Clooney e un paio di Soderbergh) e la Dreamworks. Strano quindi che da un pool simile sia uscito un oggetto così blando, sonnolento e, suo malgrado, così reazionario. Il tedesco Benedict Cumberbatch è Assange, visionario sempre teso e molto megalomane, capace di repentini sbalzi che hanno a che fare –secondo la sceneggiatura di Josh Singer, tratta dal libro dell’ex socio tedesco di Assange Daniel Domscheit-Berg, Inside WikiLeaks– oltre che con il cattivo carattere anche con un un’infanzia tragica. Daniel Bruhl (il Lauda di Rush) è Berg che , sedotto dall’australiano, diventa il suo principale collaboratore.

Fino al momento in cui Assange si smarca dall’accordo fatto con Times, Guardian e Spiegel e decide di pubblicare in massa i documenti segreti senza omettere (come hanno fatto invece i quotidiani) informazioni relative a persone che lavoravano in incognito per il governo Usa, e quindi mettendole potenzialmente in pericolo. All’inizio, quella di Assange è Berg è una crociata «nobile», di due persone – Condon illustra la dimensione donchisciottesca di WikiLeaks con l’immagine ripetuta di un grosso set popolato di scrivanie vuote dietro alle quali Assange si materializza ogni tanto in diverse incarnazioni di se stesso.

È uno degli espedienti con cui il regista cerca di dare alla storia un equivalente visivo della scossa tellurica provocata dall’ingresso nel mondo dell’ informazione da quel quinto potere cui WikiLeaks è simbolo. Ma il film è irrimediabilmente lineare, parlatissimo, intrappolato nella sua ambivalenza nei confronti del protagonista e nell’ossessione ecumenica di dare voce, se non proprio ragione a tutti. Ci sono perfino Laura Linney e Stanley Tucci nei panni di due impiegati del dipartimento di stato alle prese con la pubblicazione delle corrispondenze diplomatiche segrete. Lei perde il posto perché autrice di qualche missiva imbarazzante sui capi di stato esteri (dettaglio carino: le firmava «Hillary»), ma non prima di aver estratto dalla Libia, in extremis, il suo informatore più prezioso, anche lui messo a rischio dalla hubris di «Julian».

Nell’arco dei credits d’apertura di The Fifth Estate si va da Gutenberg all’immagine dell’ultimo numero di Newsweek – la nascita e la fine del giornalismo su carta incapsulate in un clip. Sia quella parabola che WikiLeaks meritano una riflessione molto migliore di questa.