Oscar meritato quello aggiudicatosi da Spotlight che nell’epoca dello scoop a tutti i costi, racconta l’inchiesta giornalistica sui preti cattolici pedofili a Boston come un fuori campo angosciante, proponendosi invece come un sobrio film «giornalistico».
Diretto da Tom McCarthy (e presentato con successo fuori concorso al festival di Venezia) il film è costruito su una sceneggiatura ben calibrata (e vincitrice infatti dell’Oscar per questa categoria) basata su una struttura narrativa tradizionale, tipica del filone dei newspaper pictures.

Prettamente metropolitano e metacomunicativo, questo genere classico indaga scandali e corruzione, ma allo stesso tempo mette in scena la competizione tra i media – la gara tra stampa, tv e cinema nel raccontare la realtà. Non sorprende che il genere riemerga oggi con la serie Newsroom o con film come questo, quando la competizione mediatica nel post-digitale vede il cinema combattere con i «nuovi media» con tutte le sue armi, inclusi i vecchi «contenuti», persino i film di messaggio. Nella storia del newspaper picture l’economia dei media gioca un ruolo chiave: negli anni Trenta gli investimenti nel sonoro e l’espansione dell’esercizio determinarono la dipendenza di Hollywood dalle banche, ma anche lo sviluppo di sinergie produttive con stampa e radio, come nel caso dei cinegiornali Hearst. E il cinema si inventò questo genere per appropriarsi del potenziale di tutti questi mezzi e dimostrare ai suoi padroni la propria forza.

I newspaper pictures nascono inoltre durante la Grande Crisi, ovvero negli anni Trenta, con l’avvento del sonoro- mescolando il ticchettio delle macchine da scrivere alle sventagliate di mitra, il rumore delle rotative a macinare l’attenzione del pubblico come in Prima pagina. Varianti tonali: il cinismo dei giornalisti col cappello cacciato all’indietro disposti a tutto per uno scoop, o l’idealismo del giornalismo investigativo che diventa automaticamente racconto. Spotlight appartiene alla seconda categoria: un film «classico» al servizio della storia senza virtuosismi stilistici, se non un livello di performance da manuale, con Michael Keaton e Mark Ruffalo in gran forma.

Proprio perché il tema dei preti pedofili è cosi doloroso, invece di soffermarsi sulla vita privata e sulle individualità delle vittime, il film procede coi piedi di piombo, come il capo dell’unità investigativa (la Spotlight) del Boston Globe interpretato in understatement da Keaton, ovvero indagando i fatti con cura meticolosa allo scopo di documentare non tanto le molestie in sè – le confessioni sono ridotte al minimo , anche quando i voluminosi dossier dei processi insabbiati dalle potenti lobby cattoliche sono diventati disponibili- mostrando invece la rete sottile e impenetrabile di complicità che ha reso possibile questo silenzio, le motivazioni non sempre irragionevoli di chi non voleva attaccare un’istituzione che aveva svolto altrimenti una funzione positiva nella città.

Il lavoro dei giornalisti del Boston Globe fruttò il Pulitzer a Mike Rezendes, interpretato da Ruffalo, ma anche qui il film rifugge dall’esibizionismo promozionale e non cita il dettaglio neppure nei cartelli che alla fine raccontano gli sviluppi dell’inchiesta, incluso l’allontanamento di molti dei preti colpevoli e l’elenco dei luoghi nei quali sono documentati crimini analoghi.

Agghiacciante tra queste la notazione che l’arcivescovo di Boston, Bernard Francis Law, che per anni aveva coperto la situazione, venne trasferito da Giovanni Paolo II a Roma, presso la Basilica di Santa Maria Maggiore, e pare che viva tuttora nel Palazzo della Cancelleria Vaticana. Piuttosto che indulgere nel pruriginoso quanto duro racconto della pedofilia, il film sostiene quindi il dovere della stampa di andare al cuore della piaga e del sistema: non la mela marcia, ma l’albero da abbattere, o risanare dalle radici.

E fin qui siamo nella tradizione del newspaper picture di denuncia; ma Spotlight fa un passo ulteriore, mostrando come dopo l’11 settembre far scoppiare lo scandalo sembrava quasi improponibile, col dilagare dell’integralismo in teoria religioso – in pratica razzista e politico- ovunque. Una bella sfida per la gerarchia cattolica, ma soprattutto per una cultura laica, assediata ovunque.