L’«estroso fanciullo» si alza alle cinque del mattino per battere la macchina e tradurre. Camillo Sbarbaro, poeta ed erborista – ha scoperto oltre un centinaio di specie di licheni –, racconta la sua «lunga fedeltà» ad Angelo Barile nella terza parte del carteggio indirizzato allo scrittore di Albissola Marina. Per prendere congedo Lettere ad Angelo Barile 1947-1967 (a cura di Domenico Astengo e Stefano Verdino, San Marco dei Giustiniani, pp. 274, € 34,00) segue infatti Cartoline in franchigia (Vallecchi 1966), che raccoglie le missive per gli anni 1909-’19, e la seconda tranche La trama delle lucciole (1919-’37), a cura di Astengo e Contorbia, edito sempre da San Marco dei Giustiniani nel ’79. Del quasi sessantennale rapporto di amicizia tra i due liguri si è perduto un (sintomatico) decennio, come spiega lo stesso Sbarbaro in un’epistola ad Alceste Angelini del 5 gennaio 1966: «Nelle lettere a Barile noterai lacune; una di tre anni. Molta corrispondenza infatti (e non solo mia) andò distrutta dal fratello di Barile, mentre Angelo era in prigione per antifascismo, in previsione di un’irruzione in casa (che vi fu) di fascisti in cerca di “pezze d’accusa”».
Temperamenti diversi ma complementari: l’autore di Pianissimo, scabro e incistato in una ruvidezza scientifica, pare abbastanza distante dall’afflato religioso di Quasi sereno. Ma la placidità amorevole di Barile è forse l’altra faccia della bellezza visiva, della tenacia dei simbionti sbarbariani (si ricordi una celebre pagina di Trucioli: «Il lichene prospera dalla regione delle nubi agli spruzzi del mare. Scala le vette dove nessun altro vegetale attecchisce. Non lo scoraggia il deserto; non lo sfratta il ghiacciaio; non i tropici o il circolo polare»). E come nacque il sodalizio? «Barile divenne presto il primo e decisivo lettore di Sbarbaro – scrive Astengo nel saggio introduttivo al volume – e Cartoline in franchigia documenta splendidamente il primo tempo di questa leggendaria amicizia (…) registrata, passo dopo passo, da un carteggio che Barile ha salvato da ogni naufragio».
Impiegato in un’industria siderurgica savonese e poi insegnante di latino e greco presso l’istituto Arecco dei gesuiti di Genova, «traduttore formidabile» pervaso dal «senso della provvisorietà» – donde la sua passione di lichenologo, ossia ricercatore di «effervescenze» –, Sbarbaro è più di ogni altro il poeta che suggerisce a Montale le atmosfere pungenti e solitudinarie degli Ossi di seppia. In queste lettere ad «Angelissimo» il nome di «Eusebio» torna a simpatia alterna. L’influenza di «affCamillo», però, sul primo Eugenio – un’influenza che si fa aperta citazione nel dittico eponimo in Movimenti e persiste anche in età matura nella grande metafora dell’Anguilla – non risiede soltanto dentro occorrenze linguistiche ormai dimostrate (da Mengaldo, ad esempio), ma più profondamente, più puntutamente in una postura esistenziale dell’essere poeta, del fare poesia: uomo del regno vegetale e del fuoco fatuo, scettico e sognatore al contempo, Millo – come ricorda Montale nel necrologio uscito sul Corriere della Sera il 5 novembre 1967 – è emblema della «decenza quotidiana», dotato com’è del «dono dell’espressione» parcamente utilizzato, e ancor di più della nobilissima madonna «povertà», là dove «ogni altra forma di ricchezza avrebbe offeso il suo senso della dignità».
E dunque il ruolo rivestito dalle corrispondenze private non può essere marginale nell’opera in versi e in prosa di Sbarbaro. Anzi. Verdino ci dà indicazioni utili al riguardo: «Le lettere edite sono ben oltre il migliaio e ci consentono preliminarmente due osservazioni: in molti casi ritroviamo analoghi contenuti espressi a più interlocutori, ma quasi sempre con sottili varianti formali (…); inoltre quasi ogni epistolario è munito di copialettere inviati a vari terzi, come una sorta di preistorico blog, che tuttavia il tempo differito della singola scrittura epistolare rende sempre peculiare, stante il continuum variantistico dell’inquieto (e nevrotico) scrittore». Abbiamo anche qui uno Sbarbaro regolare e metodico, ma estremamente attratto dalla compattezza e dalla varietas stilistica di quello che forse già immagina essere parte del suo lascito letterario. I temi sono ordinari: ristampe, raffreddori («Mi son già buscato – e con quei bei giorni! – un’influenza finita in otite»), trasmissioni televisive («il silenzio della RAI perdura»), traduzioni, gite in programma, recensioni, alcuni fantômes de vivants tra cui Elena Vivante – commoventi le lettere che narrano la sua malattia – e relative confessioni («non “amore” per Elena (…); comunione d’anima»); la forma è sempre sorvegliatissima, ciceroniana, marcata da uno scaltro faux exprès. L’ascetismo laico e il cupio dissolvi di Sbarbaro lo apparentano negli intenti, sebbene sotto altra angolatura, al suo caro Barile. Scampoli, primizie o rimanenze di senso: l’importante è ricordarsi con affetto, avere a portata di mano una macchina da scrivere. E ovviamente gli «amati licheni».