Le elezioni in Spagna rappresentano una grande novità sullo scenario europeo per l’implosione del bipolarismo e l’ottimo risultato ottenuto da Podemos. Sarebbe tuttavia erroneo, nel discuterne, archiviare il recente voto regionale francese, ignorando la svolta che esso ha rappresentato. Nelle regionali d’oltralpe si è manifestato un moto tellurico di enormi proporzioni, ricco di insegnamenti anche per il nostro paese. I risultati del ballottaggio e ancor più quelli del primo turno sono lo specchio della crisi storica della sinistra politica: l’indizio del rischio che essa si estingua nel quadro della transizione postdemocratica del continente.

In Francia la scomparsa della sinistra è stata resa esplicita dalla decisione dei socialisti di non presentarsi al secondo turno dove non avevano chances di vittoria. Contro la vandea neofascista la desistenza frontista è più che motivata. Ma c’è anche del simbolico in questa decisione che ha detto due cose importanti: che il Fn occupa ormai metà del cielo della politica; e che tra socialisti e neo-gollisti non c’è gran differenza: non li accomuna soltanto l’ostilità verso la destra estrema, ma anche l’opzione per forme di governo oligarchiche e autoritarie e una cultura politica fatta di centralità del mercato, avversione per il ruolo del pubblico in economia, indifferenza (o favore) per le sperequazioni.

Va da sé che tra questi elementi sussistono connessioni importanti e che la somiglianza tra sinistra e destra è in larga misura la causa del dilagare del populismo neofascista.

Non l’unica causa: influiscono anche fattori esterni, a cominciare dai flussi migratori che una destra xenofoba, razzista e nazionalista può agevolmente strumentalizzare in chiave securitaria e identitaria. Ma lo scivolamento della principale forza della sinistra su posizioni conservatrici è la causa determinante del trionfo dell’estrema destra perché – come dimostra il crollo socialista nelle roccaforti operaie – provoca sfiducia e risentimento in quella che fu storicamente la base sociale della sinistra, ritrovatasi priva di rappresentanza.

Di qui anche il macroscopico astensionismo che si è potuto ancora in parte recuperare in una chiamata alle armi come quella del ballottaggio del 13 dicembre ma che da anni aumenta modificando irreversibilmente, a vantaggio della destra, i rapporti di forza tra i partiti politici.

In che misura il voto francese parla anche dell’Italia? Per quanto concerne il pericolo rappresentato dalle forze populiste, da noi lo scenario è diverso. Difficilmente la forza più vicina al Fn (la Lega nord) diventerà il primo partito del paese, per quanto lo sforzo di Salvini di nazionalizzarla mieta successi grazie anche all’alleanza con i fascisti della Meloni (e di Casa Pound) e, soprattutto, allo sfarinamento dell’alleato berlusconiano. In Italia buona parte del voto di protesta è intercettata dal M5S, che non ha un analogo in Francia e che soltanto in parte (benché in buona parte) è riconducibile alla destra.

Per quanto la non irrealizzabile eventualità di un successo grillino nella competizione per il governo nazionale non sia precisamente una fonte di serenità, da questo punto di vista il quadro è dunque meno allarmante che oltralpe (anche se l’alleanza tra Lega e Forza Italia ci priva della possibilità di ricorrere, all’occorrenza, al paracadute di un «fronte repubblicano»). Per ciò che riguarda invece la crisi della rappresentanza (cioè della democrazia), la situazione italiana è simile a quella francese e persino peggiore.

Anche in Italia la cosiddetta sinistra moderata è una forza centrista con inclinazioni destrorse. Non è un caso che il Pd governi con l’Ncd e gli ex-montiani e conti sull’appoggio di Verdini dopo essersi a lungo avvalso del patto del Nazareno. Rispetto alla Francia siamo messi peggio perché la fusione di Margherita e Ds da cui nel 2007 nacque il Pd prodiano e veltroniano ha sancito anche formalmente l’eclisse di una sinistra socialista autonoma.

Ma il dato più macroscopico – che peraltro accomuna l’Italia a buona parte della Ue – è l’assenza di forze politiche nazionali che rappresentino gli interessi del lavoro dipendente e ne difendano con efficacia diritti e conquiste.

Anche se ci siamo ormai assuefatti a questo stato di cose, si tratta di un fatto dirompente in una fase storica caratterizzata dal dilagare dell’ansia per effetto della precarietà delle condizioni economiche e sociali, acuita dalla gestione recessiva della crisi, e del terremoto migratorio, strumentalmente connesso allo spettro del terrorismo.

Se si considerano tutte le articolazioni del mondo del lavoro dipendente (salariato, autonomo eterodiretto, sommerso; e ancora i pensionati, i disoccupati e gli inoccupati) appare che in gran parte dell’Europa (fatta eccezione per Grecia, Portogallo e Spagna) la componente sociale maggioritaria è sostanzialmente priva di rappresentanza politica e per ciò costretta ad astenersi o ad affidarsi a forze avverse.

Di qui l’enfatizzarsi del ruolo della propaganda, una contromossa “sovrastrutturale” che, oltre ad avvelenare la democrazia con l’occupazione militare della sfera pubblica, procura benefici effimeri, poiché le narrazioni menzognere sono destinate a sbugiardarsi da sole lasciando dietro di sé rancore e disorientamento.

In Italia, come in larga parte d’Europa, il ceto politico vive ormai fuori dal tempo, prigioniero dei propri privilegi, mentre i corpi sociali debbono ogni giorno fare i conti con una dura transizione che minaccia di preparare un futuro da incubo. Ciò che in conseguenza di questa divaricazione il dramma elettorale francese rivela è il rinnovato rischio dell’instaurarsi di regimi reazionari capaci, se non altro, di rassicurare la massa dei lavoratori «della nazione».

Il sopravvento della destra estrema sarebbe tragico, ma non se ne potrebbe certo attribuire la principale responsabilità a quanti per anni hanno incassato soltanto danni e inganni da parte di chi avrebbe dovuto rappresentare i loro interessi.