Il jazz di ogni epoca è musica che tiene assieme molti snodi solo apparentemente tra loro in contraddizione: ad esempio quello di essere una musica che assume in egual conto l’assoluta personalizzazione del suono, dunque un qualcosa che non è riproducibile o imitabile, perché legato al singolo musicista, e il massimo che si può ottenere da un’interazione paritetica tra persone decise a «parlarsi» tra loro con gli strumenti. Dialogo e monologo assieme, dunque, ascoltandosi. Funziona così ogni gruppo, dal duo all’orchestra. Attorno agli Quaranta un impresario leggendario che si chiamava Norman Granz ebbe l’idea geniale di «istituzionalizzare» da un palcoscenico di teatro l’aspetto individualista e quello dialogico assieme del jazz, facendo «sfidare» tra loro i jazzisti, a patto che funzionasse il tutto del gruppo. Un po’ con questo spirito da quasi vent’anni esiste un supergruppo di sassofonisti che si chiama Saxophone Summit e che ha aperto il Gezmataz Festival di Genova (oggi ultimo giorno) al Porto Antico, un festival diretto da un notevole jazzista italiano, Marco Tindiglia.

Due tra i fondatori del «Summit» sono ancora al loro posto dagli inizi : Joe Lovano al tenore e Dave Liebman, nel supergruppo impegnato essenzialmente al soprano ed al flauto, il terzo sax è quello contralto saettante di Greg Osby. Dunque un settantenne, un sessantenne e un cinquantenne a coprire con la loro divaricazione anagrafica una bella fetta della storia del jazz. Saxophone Summit, una potenza di fiati complessiva entusiasmante e d’impatto quasi fisico ha bisogno di una ritmica all’altezza: c’è il pianoforte ficcante e lucido del sottovalutato Phil Markowitz, il veterano Cecil McBee al contrabbasso, e la batteria di Billy Hart, uno che dietro ai tamburi riesce ad avere la compressa, dirompente potenza di un Art Blakey e l’aerea mobilità di Tony Williams. Non è una fiera della vanità delle sfide, un concerto del Saxophone Summit: piuttosto una lezione pulsante e veritiera su quanta sedimentazione storica accorpi ormai il jazz nell’anno del suo centenario discografico.

Succede così che ad esempio un pezzo come The Twelfth Man di Liebman sia costruito come un midtempo misterioso e aperto, armonicamente instabile e ambiguo come certi pezzi di Miles nel ’65, o di Wayne Shorter: isole nella corrente di suono con più d’un eco di deep blues in cui Liebman col soprano costruisce frasi che arrivano ad una sorta di controllata, dirompente petulanza di suono. Coltrane: è l’ombra lunga e pesante di tutti i sassofonisti, e Lovano e Liebman assieme al gigante gentile hanno dedicato di recente un bel disco. Dal palco di Genova ne hanno ricordato il cinquantesimo dalla scomparsa, e l’hanno omaggiato da par loro, da Saxophone Summit: recuperando la virile e straziata al contempo Indi. Chiusura con un purissimo momento di concitazione ai bordi del free, una sorta di controllata eterofonia che forse rimandava, oltre che a New York e Chicago, anche a un passato remoto del jazz nelle vie di New Orleans: loro se lo possono permettere, col sorriso sulle labbra.