Evan Parker è di casa in Italia negli ultimi tempi. Il caposcuola della free improvisation europea ha collaborato con musicisti e artisti del nostro paese in varie occasioni, da Roma (club Dal Verme, chiuso d’autorità tra le proteste di tutti gli ambienti culturali della città) a Milano. Nella capitale lombarda è stato protagonista delle due serate intitolate Intersezioni. Abbiamo seguito la prima al Teatro Arsenale. Dove si è visto che Parker non è intransigente affatto in tema di improvvisazione assoluta. Infatti ha dialogato, oltre che con artisti dediti all’«istante», anche con partiture già fatte. Lui, però, ha sempre improvvisato.

L’esperimento consisteva appunto nel mettere assieme, senza velleità di «fusione», aspetti della produzione musicale contemporanea come la libera improvvisazione (Evan Parker al sax soprano, Matteo Pennese alla cornetta), la composizione annotata (Walter Prati, Cristian Morales Ossio), l’elettronica dal vivo (ancora Walter Prati). In più, un altro elemento non musicale ma assai vicino nella concezione a criteri musicali: i video di Roberto Masotti e Gianluca Lo Presti, basati su materiali pre-esistenti ma elaborati al momento. Le due partiture, di Prati e di Morales Ossio, erano affidate al trio d’archi (elettrificati) Mdi Ensemble, formato da Elia Leon Mariani, violino, Paolo Fumagalli, viola, Giorgio Casati, violoncello.

Non tutti assieme i vari attori della performance. Si sono ascoltate e viste cinque sezioni distinte, però senza interruzione. Un flusso ideale e reale di eventi diversi in cui l’unico dato fisso era la presenza attiva di Parker. La prima sezione prevedeva Parker col suo strumento, Prati con il live electronics e un video. L’impro al comando. Sarebbe rimasta la più riuscita, non quella con più fattori di novità. Da incantamento il monologo interiore/esteriore di Parker, lontano da quella certa «classicità» esibita di recente. Un eloquio a tratti «underground», duro, aspro, spezzato, a tratti spaziale. Il tragitto sonoro del grande inglese era ricco di rifrazioni, ma non si trattava solo di fenomeni sonori ottenuti da Prati per «aggiunta trasformativa», piuttosto di ulteriori tragitti autonomi.

Elettronici. Molto interessanti, molto mirati ad accentuare i lati «underground» dello strumentista. Il duo visual-sonoro Masotti-Lo Presti (nel loro video erano già presenti effetti sonori propri) aveva il pregio e il difetto di mimare l’improvvisazione. Lo stile, il «tono» delle forme in movimento, sembrava però avere più voglia di realismo.

Nella seconda sezione (partitura di Prati più Parker e Pennese) la scrittura di Prati aveva qualcosa di minimal, qualcosa di estatico, qualcosa di pacato. Un Pärt dei tempi di Fratres, mettiamo (fine anni ’70), più sensibile ai linguaggi delle avanguardie. Lì Parker ha trovato accenti blues/ballad inconsueti, semplicemente straordinari per finezza e originalità. Ancora un po’ in ombra il cornettista Pennese, che avrebbe giocato più avanti le sue carte migliori.

Le ha giocate – suoni esilissimi, come di flauto ma tutt’altro che dolci, piuttosto «metafisici» – nella quarta sezione che annoverava una rozza partitura di Morales Ossio più sax e cornetta a improvvisare. Sono stati i momenti, quelli dove la densità della scrittura si attenuava e si aprivano spazi di riflessione e spazi adeguati per gli improvvisatori, in cui nel lessico di Parker sono entrati elementi ultra-weberniani – suoni isolati in pianissimo, soprattutto – che non si conoscevano di lui. Bilancio della serata: un immenso Parker sollecitato a rinnovarsi ancora una volta.