Tra gli apologeti e i detrattori di Roberto Saviano, ho scelto dal principio di stare tra i primi, addirittura da quando Saviano non era ancora Saviano, da quando era uno spiritatissimo giornalista sconosciutissimo.
Ma prima di raccontare l’episodio rivelatore della persona e del personaggio, due parole su Saviano oggi che è diventato nonostante tutto e tutti, compreso se stesso, un divo.
In un certo senso ra inevitabile, in un tempo di oscuro passaggio dal vecchio che muore al nuovo che non vuole nascere, insomma in questo nostro tempo di crisi epocale, nel quale la figura del capo carismatico naturalmente si diffonde e s’impone. Per restare in Italia, negli ultimi decenni ciò è accaduto più volte. Nella forma a metà fra il «Barone di Münchhausen» di Raspe e il Casanova di Fellini (Berlusconi), nella forma a metà tra Girolamo Savonarola e Corrado Guzzanti (Grillo), nella forma a metà tra il Vantone di Plauto e il Valentino di Machiavelli (Renzi). Inevitabile, nella fase terminale della crisi della vecchia civiltà moderna. Una crisi nata non dieci anni fa dalla faccenda statunitense dei subprime, come tutti a destra e a sinistra vanno ripetendo, ma dalla crisi di inizio del Novecento, come Gramsci per primo ha capito e scritto nei «Quaderni del carcere» (1929-35), definendola «crisi organica», e Weber ha intuito come tempo oscuro nel quale germina una moltitudine di figure carismatiche.
Weber parlò infatti, nella conferenza «La politica come professione» (1919), della «autorità del dono di grazia personale di natura straordinaria – carisma», della «dedizione assolutamente personale nel carattere eroico o in altre qualità di capo di un individuo». E della «dittatura fondata sullo sfruttamento della natura sentimentale delle masse».
Veniamo a Saviano prima di Saviano.
Era il 27 giugno del 2003. Era notte, a Napoli, ed è mancata improvvisamente la luce elettrica. Black out, nero fuori. Mi trovavo al fianco di Agata Fuso, giovane donna napoletana ricca di giovani amici intellettuali, in un buio metropolitano rotto soltanto dai fari delle automobili e dagli accendini, quando ho incontrato Saviano prima di Saviano.
Era un giovane spiritato, facondo, febbricitante e luminoso – mi raccontò la sua ricerca in corso sulla Camorra.
Agata mi presentò quella notte altri suoi giovani amici, spiritati e facondi quanto lui – altre storie, altri progetti ho ascoltato. Ma l’unico che vedeva nero fuori e bianco dentro era lui, febbricitante e luminoso. Solo lui tra tutti era posseduto dalla speranza di cambiare la propria vita e dalla determinazione a cambiare la vita del mondo. Gli altri erano disperati, nero dentro e nero fuori, come i compagni del viaggio di ritorno in Italia di Nino Manfredi alla fine di «Pane e cioccolata» di Brusati. Lui non era disperato, no, Saviano prima di Saviano: aveva già deciso di scendere dal treno di coloro che cantano «chi ha avuto ha avuto ha avuto / chi ha dato ha dato ha dato / scurdammoce o passato simmo nate per cantà / simmo e Napule paisà».
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