Con tre romanzi pubblicati, e un altro, Il re della pioggia, in arrivo, Saul Bellow inaugura negli anni Cinquanta la sua attività di critico letterario su grandi testate. È un momento storico non particolarmente fertile, che anzi accusa stanchezza. Il panorama è ancora dominato da Hemingway, nonostante nuove figure si affaccino, e da fronti diversi: l’afro Ralph Ellison, gli ebrei americani Philip Roth e J. D. Salinger, il beat Jack Kerouac.
La critica nicchia o bacchetta, mormorando sulla fine del grande romanzo americano. Nell’entrare in scena dall’altra parte della staccionata, Bellow ha in mente un progetto: ripartendo dall’eredità russa e francese e dal riposizionamento dell’uomo novecentesco nella corrente delle idee, intende promuovere la rieducazione alle finalità del romanzo: «Che cos’è l’uomo e perché te ne ricordi?», dice «il Salmista».

Più laicamente Bellow si chiede: «L’essere umano è pur sempre qualcosa, ma che cosa?», «Perché siamo venuti al mondo? Che cosa ci facciamo, qui? Dove siamo diretti? Nella sua eterna ingenuità – scrive – l’immaginazione continua a tornare su questi interrogativi». Termine «obsoleto» per l’accademia del tempo, l’immaginazione è invece per Bellow ciò che legittima la missione dello scrittore di fronte a quelle difficili domande ultime che il calvinismo americano non si pone: è il suo strumento di azione nel e sul «rumore» del mondo. È la rara facoltà ordinatrice.

Gli anni dei grandi romanzi
Su quegli interrogativi vecchi come il mondo, ma poco sentiti in un’America abituata a eleggersi, sin dalle origini, a matriarca degli uomini nuovi, fatti a misura della modernità, si avvia la raccolta Troppe cose a cui pensare. Saggi 1951-2000 (Sur, pp. 358, euro 20,00), un pendant a I conti tornano (Mondadori, 1995), che Luca Briasco cura, introduce e scorpora da un volume assemblato da Benjamin Taylor nel 2015 per il centenario della nascita di Bellow e il decennale della sua morte.

Anche ai suoi esordi di saggista Bellow non si cuce la bocca, anzi appare polemico, ironico, dogmatico nelle sue puntate contro editoria, consumismo, università, tecnologia; falcia dove vede zizzania (vera o presunta): su Hemingway, Fitzgerald, il correligionario Philip Roth; e per tutto quel decennio di transizione insiste sul compito dello scrittore che deve consistere «nel fissare un ordine di importanza e preservare un valore umano originale, proteggendo dagli stili, le astrazioni, come anche dall’assalto e dalla distrazione dei fattori sociali in tutta la loro varietà». Servirà, questo ammonimento, anche a se stesso? Quel se stesso di immigrato – maestro di stile tanto quanto il Wasp John Updike – giunto ora sulla soglia di anni problematici?
Sono anni, del resto, che lo vedranno protagonista della scena letteraria, con Herzog, il suo capolavoro, e quindi con Il pianeta di Mr. Sammler, punto dolente nel suo rapporto con l’America, per concludere la sua stagione migliore con Il dono di Humboldt, preludio al Nobel del 1976, che gli venne conferito con questa motivazione: per avere saputo «conciliare nella sua opera la comprensione dell’umano e la sottile analisi della cultura contemporanea». E, si può aggiungere, per aver auspicato il ritorno del romanzo alla provincia che, a suo avviso, è il contesto ad esso più pertinente.

Oltre le sue due culture
«L’era dello scrittore come modello pubblico di saggezza, in grado di informare nel modo più credibile, è finita», constata nel 1977, indicando alcuni nodi critici. Per esempio, l’idea di «romanzo totale», un progetto estetico che in origine «ambiva a racchiudere il mondo intero. Alla ricerca del tempo perduto di Proust e l’Ulisse di Joyce – sostiene Bellow – non intendono tanto dipingere il mondo reale, quanto sostituirlo attraverso le leggi dell’estetica». Giudizio con molti grani di verità. In un altro scritto denuncia la resa degli scrittori «alla forza dei fatti, degli eventi e del reportage, alla politica e alla demagogia»: basterebbe pensare al New Journalism. O ancora, e qui c’è qualcosa di personale e di accorato, denuncia la poca attenzione all’individuo «quest’unità tra essenza vitale, sistema nervoso e cervello, che giudica, è felice o in lutto, vive e muore sul serio». Un’essenza sempre nel cuore della sua narrativa, fino all’ultimo romanzo del 2000, Ravelstein.

Nel sottolineare la «comprensione dell’umano», la motivazione di Stoccolma trascende sia le origini ebraiche sia l’America di Bellow, il quale così viene proiettato oltre le due culture cui è in primis debitore. Un approdo ideale (e fortunato), forse frutto delle macerate elaborazioni intellettuali del suo coté di saggista, che nelle analisi di questi scritti nulla esclude, continuando a vagliare il «dramma della civiltà», l’ebraismo, il lascito europeo, la scrittura e la vita in movimento: esattamente lì dove vive, e dove insegna nelle università (a Princeton, in Minnesota, a Puerto Rico, a Yale), poi stazionando in prevalenza tra Chicago – la sua città-patria dopo la nascita nel Quebec – e New York, ma senza dimenticare il proprio percorso.

Bellow non tace, quindi, sulla disumanità dei «ghetti» di Montreal e sugli slum di Chicago della sua infanzia, non «troppo diversi» da quelli «della Polonia e della Russia»; non risparmia le sue riserve circa gli scrittori ebrei che «hanno idealizzato e edulcorato il ghetto», peccando di scarso realismo a favore della «necessità di mantenere una distinzione tra le relazioni pubbliche e l’arte». Invita a non denigrare l’ebreo, come fa Philip Roth, perché ce n’è già abbastanza da parte di chi ebreo non è; e a richiamarsi invece all’«immaginazione ebraica», nonostante sia stata spesso ritenuta «colpevole di aver umanizzato tutto, di schierarsi in modo eccesivo dalla parte del genere umano». Esorta inoltre a salvare la comicità della storiella ebraica, «perché quando ridiamo la mente ci riporta all’esistenza di Dio».

Ce n’è abbastanza per chi vede, invece, un Bellow poco ortodosso nell’adesione alla sua cultura madre, anche se egli sorride quando gli viene consigliato l’uso della lingua ebraica per «sopravvivere»; o quando reagisce alla irritazione di Gershom Scholem, che aveva ribattuto al suo definirsi americano prima che ebreo. «Non ragionerai», confessa in un a parte, «sulla tua morte in ebraico o in francese. L’inglese è lo strumento principe della tua umanità».

L’ex uomo in bilico
Ognuno contratta a suo modo il conflitto circa la propria appartenenza. Resta l’uomo, quell’uomo che si ritempra nell’ordalia dell’immigrazione: «Siamo tutti figli di immigrati – dichiara Bellow nel 1970 a Tel Aviv – cresciuti negli Stati Uniti e legati da determinati valori democratici ai quali, personalmente, non ho intenzione di rinunciare, e sui quali continuo a basare la mia vita». Sa bene che gli Stati Uniti non offrono solo «seduzioni», conosce la vita dura al tempo della Depressione, è perplesso – a differenza di altri suoi colleghi – di fronte agli sconvolgimenti degli anni Sessanta, e i fatti di fine secolo lo trovano disarmato: «Cosa siamo in condizione di fare, oggi – si chiede nel 1992 – di fronte alle crisi raccontate ogni giorno sul New York Times – la nuova Russia e la nuova Germania; il Perù e la Cina; la droga nel South Bronx e le rivolte razziali a Los Angeles; la quantità crescente di reati e di malattie; la catastrofe del cosiddetto sistema educativo; l’ignoranza, il fanatismo, le tattiche da pagliacci dei candidati alla presidenza?»
Come molti suoi personaggi, Bellow, ex «uomo in bilico», è dalla parte del pensiero non dell’azione. E questi saggi ne registrano gli umori, le coerenze, le contraddizioni, restituendo il tracciato della sua autobiografia intellettuale sullo sfondo di un vasto ritaglio degli Stati Uniti del XX secolo.