L’estate giapponese con la sua calura asfissiante e quell’umidità così tipica del continente asiatico è appena cominciata qui nell’arcipelago. Spesso per chi abita nei centri urbani l’unica via d’uscita e di fuga è il condizionatore d’aria in casa o nei locali pubblici, o la classica gita fuori città. L’estate, ed in particolare il mese di agosto, in Giappone è anche il periodo in cui si ritorna al proprio paese natio, un’occasione per riscoprire i luoghi naturali del Sol Levante, che è bene ricordare, è coperto per più del sessanta per cento da montagne e foreste.

Riscoprire le campagne significa anche spesso attraversare ed esperire in prima persona quello che in Giappone è chiamato Satoyama, un incontro fra «natura» e «cultura» che crea dei paesaggi socio-ecologici di grande interesse. La parola è formata dai due ideogrammi «sato», che indica un villaggio, e «yama», montagna, ma che qui ha un valore più ampio per indicare foreste, colline e montagne ed più in generale anche un significato più spirituale che denota la parte selvaggia e non controllabile della natura. Il termine, semplificando un po’, indica quindi una zona fra la base della montagna, ma esiste anche un Satoyama marino sulle coste, e la pianura, usata per coltivazioni di piccole dimensioni che mantiene intatta la diversità paesaggistica e biologica della foresta e delle zone circostanti.

Un ecosistema che è anche un modo di fare agricoltura, il «marchio» umano per eccellenza, ma allo stesso tempo integrandosi con l’ambiente circostante e attivamente migliorandolo in una sorta di mosaico composito e annualmente fluido. Anche se questa interconnessione fra elemento umano e selvaggio era naturalmente già presente e praticata attivamente nei secoli passati, il termine è diventato popolare nell’arcipelago specialmente nel periodo post-bellico. Questo, come spesso accade, è avvenuto per una reazione di contrasto con quello che il boom economico del dopoguerra aveva portato con sé.

Non solo la rapida industrializzazione, ma anche il riversamento della popolazione dalle campagne verso gli agglomerati urbani e soprattutto l’avvento dell’agricoltura mossa da grandi capitali, sono tutti fenomeni che hanno portato molti giapponesi a riscoprire il concetto di Satoyama. Certo, spesso viene venduto come un ritorno ad un idilliaco passato, ma in realtà si tratta di una possibile ecosostenibilità che apre molte strade interessanti verso il futuro, dove l’agente umano è una delle tante tessere del mosaico, non quella centrale e principale.

Esistono moltissimi documentari e programmi televisivi che indagano e spiegano questo fenomeno culturale e paesaggistico, molti sono interessanti e cercano di soffermarsi sulle varie esperienze peculiari in singoli luoghi. Altri ancora spesso ricadono, come detto, nel passatistico, ma forse gli esempi più significativi si ritrovano in due lungometraggi animati realizzati dallo Studio Ghibli. Il mio vicino Totoro diretto da Hayao Miyazaki nel 1988 e Only Yesterday/Pioggia di ricordi da Isao Takahata nel 1991 e non è un caso che entrambi siano usciti fra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta, il periodo della grande bolla speculativa che pompando l’economia rappresentò anche un periodo di rottura con il passato.

Accostarsi al lato selvaggio e non controllabile della vita e della natura significa anche accettarne tutti i misteri, Totoro, con la sua aria di perenne stupefazione, che può sembrare bonaria al primo sguardo ma che diventa quasi terrore con il passar del tempo, rappresenta in questo senso un potente simbolo del lato opaco, difficilmente incasellabile e in definitiva divino della vita.

matteo.boscarol@gmail.com