«Io non sono superstizioso» dichiara uno dei membri dell’equipaggio timonato da Capitan Ciccio, all’anagrafe Francesco Adragna, in un’intervista televisiva rilasciata dopo il fortunato ritrovamento del Satiro danzante di Mazara del Vallo. I marinai son tutti superstiziosi, in verità, come subito dopo ammette l’intervistato, soprattutto quando si tratta di intercettare luoghi e momenti per una buona pesca. E in questa storia la superstizione un po’ c’entra, alla maniera in cui la leggeva Émile Benveniste: la capacità di indovinare il futuro, annusando l’aria e il tempo, come gli antichi profeti. Fatto sta che in una sera tempestosa di marzo del 1998, Capitan Ciccio e i suoi gettano in mare 1500 metri di rete fra Pantelleria e Capo Bon, in Tunisia, e iniziano una battuta di pesca a strascico. Siamo nel canale di Sicilia, in una zona particolarmente ricca di pesce, in cui l’anno precedente lo stesso peschereccio aveva portato a galla la gamba bronzea di una statua antica. Che ci fosse del magico si intuiva già da quel primo ritrovamento: il frammento misterioso di un uomo di bronzo, cavo come le conchiglie.
Da quel giorno, ogni battuta di pesca si era chiusa per il Capitan Ciccio con un passaggio nelle acque sopra il fondale fortunato. Poi, a un passo dalla primavera del ’98, ecco che l’equipaggio dà la notizia al suo capitano: «la statua, la statua, la statua!», gridano da poppa. Un torso di bronzo privo di arti viene issato sul ponte, mentre due occhi di alabastro si fissano immoti sui pescatori. Sembrerà all’inizio Eolo, il dio dei venti, per quel ricamo di riccioli scolpiti che gli copre la testa, con le trecce perfettamente disegnate che paiono investite dal turbine, mentre tutto il busto è ruotato a reggere l’urto dell’aria. Poi, sotto i capelli disegnati a freddo con il bulino, ecco spuntare due orecchie a punta e un foro rotondo, al termine del torso, proprio nel punto in cui si doveva innestare un altro segmento del corpo andato perduto. È un satiro, di certo, ma in quella prima notte all’equipaggio e al suo capitano sembra un naufrago da vegliare, come qualsiasi scampato alle onde in una notte di mare cattivo.
108 chili di bronzo al momento del ritrovamento, il satiro in origine ne doveva pesare circa duecento. Difficile sottoscrivere, a fronte di una mole tanto impegnativa, l’ipotesi più bella, che ne farebbe un decoro per l’albero, persino una polena, in grado di proteggere le navi dalle tempeste e dai naufragi. Troppo pesante, troppo instabile la postura di questo ferino seguace di Dioniso.
I marinai lo svuotano pazientemente del fango e si mettono di guardia, in contemplazione, perché di certo per tutti loro quella in cui il satiro viene tirato a bordo dev’essere stata la notte delle notti. «Il pesce è pesce quando sta nella barca», per citare Erri De Luca (Io, mio), e lo stesso di sicuro si può dire di questo bronzo affiorato dai fondali pescosi dello stretto di Sicilia. La zona era, infatti, già nota agli studiosi e agli appassionati per l’individuazione da parte del sonar di svariati target, «bersagli», che segnalavano la presenza di relitti di navi. La presenza fantasmatica di resti di naufragio si fa tuttavia concreta, tridimensionale, solo quando quel timido inciampo delle reti sul fondale, che si avvertiva nelle battute di pesca a strascico, si trasforma nel segnale della più incredibile fra le scoperte.
È dall’antichità che si ripete questo miracolo: basti pensare al giorno, nel tempo del mito, in cui un pescatore di Serifo, dotato di un nome parlante, Ditti (l’uomo delle reti), tira a bordo una cassa preziosa dentro cui sono nascosti niente meno che Danae e suo figlio Perseo. L’uccisore della Gorgone Medusa, concepito come in un quadro di Klimt, quando Zeus sotto forma di pulviscolo dorato cala su Danae, rinchiusa in una torre, per unirsi a lei nell’abbraccio impalpabile dell’oro.
In tempi ancor più favolosi un pescatore di Egina aveva ritrovato impigliata nelle reti un’antica divinità cacciatrice, Britomarti, in fuga dopo che Minosse, re di Creta, aveva preso a inseguirla fra le rocce a picco sul mare. Per ringraziare il pescatore, Britomarti aveva cambiato il suo nome, prendendone uno che le avrebbe ricordato per sempre quel salvataggio fortunoso: Dictinna, colei che è legata alle reti da pesca. Questa piccola dea fuggitiva si era infine rifugiata in un tempio di Artemide a Egina e lì era scomparsa, lasciando al suo posto una statua.
Il ritrovamento del Satiro segue quindi un copione antico almeno quanto gli itinerari di pesca. Non sappiamo quando la nave su cui viaggiava abbia fatto naufragio e neppure la rotta che dovette seguire: faceva vela fra Oriente e Occidente, nella stagione in cui la Grecia victa veniva depredata dei suoi capolavori che finivano poi a Roma? Faceva parte di un carico di bronzi che andavano a comporre il copione di un «trionfo indiano» di Dioniso? Se così fosse, avrebbe viaggiato in compagnia di pantere, elefanti, baccanti, del dio e della sua sposa mortale, Arianna, e il naufragio della nave segnerebbe l’epilogo della trionfante parata. In questo quadro non è neppure impossibile pensare, con Nicola Bonacasa, che il trionfo fosse stato commissionato da Pompeo quando, reduce dalla vittoria nelle guerre mitridatiche, di cui aveva ottenuto il comando nel 66 a.C., aveva voluto riunire l’Oriente greco e l’Occidente latino.
Forse il Satiro faceva invece parte del bottino di Genserico, re dei Vandali, rastrellato nel sacco di Roma del 455 d.C. In quell’occasione era stata allestita una piccola flotta diretta a Cartagine, per portare in Africa il frutto delle spoliazioni. Una sola nave si era inabissata durante la traversata, come ci racconta Procopio di Cesarea: forse proprio quella su cui viaggiavano il Satiro di Mazara e il corteggio di Dioniso.
Del resto, la prima comparsa di Dioniso nei poemi omerici è la storia di un inabissamento. Nel VI canto dell’Iliade (vv. 130-137), infatti, al dio tocca fuggire con le sue baccanti sul fondo del mare, nelle braccia di Teti, per salvarsi dalla furia di Licurgo, re di Tracia. Nei versi di Omero, i satiri con i loro zoccoli di cavallo e la coda equina mancano all’appello così come gli elefanti e le pantere, ma è suggestivo immaginare, in un momento imprecisato della storia di Roma, la parata di bronzo del dio dello straniamento rovinare sui fondali marini, nel corso di una tempesta.
Della statua non conosciamo neppure l’età: Paolo Moreno propose di attribuirla a Prassitele (seconda metà del IV secolo a.C.) per la tipica capacità di domare l’aria con il movimento dei corpi; c’è invece chi la ritiene un prodotto originale del tardo classicismo o della prima età ellenistica (Sebastiano Tusa e altri) o, anche, una eccellente copia di epoca romana da un originale ellenistico (Salvatore Settis e altri).
Di certo si sa solo che danza: la gamba sinistra alzata ad angolo retto, il piede destro poggiato sul terreno, le braccia aperte a croce, la testa rivolta all’indietro ad assecondare la torsione del busto. Sul braccio destro doveva tenere la pelle di pantera, la pardalide, il braccio sinistro reggeva il tirso, che in cima portava una pigna bendata di nastri: il fulcro visivo della danza. La pathosformel della follia dionisiaca, impressa ovunque, dai cammei agli argenti, dalle paste vitree alle lucerne. E i rilievi sui crateri marmorei, i fregi, gli altari, i sarcofagi; il bellissimo cratere bronzeo a volute di Derveni su cui menadi e satiri in forte aggetto danzano, dormono e incorniciano con la loro follia soporosa l’incontro di Dioniso e Arianna (IV secolo a.C.).
C’è chi pensa che il Satiro di Mazara frullasse in cerchio, alla maniera dei Dervisci Tourneurs di cui canta Franco Battiato nella sua Vorrei vederti danzare, ma è più probabile, invece, che saltasse: lo sguardo al cielo, l’intero corpo scosso da un vento immaginario e furioso, come il Sileno delle Dionisiache di Nonno di Panopoli (19, vv. 263-286). Un’altalena fra il cielo e la terra, fra il mare e la terra, fra la vita e la morte, come canta Patroclo, il più caro dei philoi di Achille, dileggiando l’auriga di Ettore, che ha appena centrato con una pietra in mezzo agli occhi: si balla come acrobati prima di morire, sul campo di battaglia o sul mare pescoso, a caccia di ostriche (Iliade 16, vv. 745-750).
Nella chiesa di Sant’Egidio, a Mazara del Vallo, il Satiro abita ora il suo Museo, in una solitudine metafisica e un po’ scarna.