Si decide in queste ore la sorte dei cinque operai Fiat di Pomigliano che invocano il diritto di satira. I cinque operai licenziati per aver inscenato una protesta davanti ai cancelli della fabbrica dopo che tre di loro si sono tolti la vita. Il primo, Peppe, impiccandosi. Il secondo, Antonio, impiccandosi. L’ultima, Maria, tirandosi tre coltellate in pancia.

«Non si capisce quale sia il nesso», obietta il professor De Luca Tamajo, avvocato Fiat, leggendo dai fogli che ha estratto dalla sua borsa di pelle, davanti ai giudici che scriveranno la sentenza d’appello. Quale sia il nesso tra Peppe che si è impiccato, Antonio che si è impiccato, Maria che si è presa a coltellate e quel manichino di Marchionne impiccato che ha sfilato tra le bandiere dei Cobas.

Impiccato – «Che trovata di cattivo gusto!» – come Antonio, come Peppe, come Maria. «Non si capisce quale sia il nesso» tra le lettere di addio che hanno lasciato i tre operai per spiegare le ragioni del loro gesto – le lettere dove scrivevano che non ce la facevano più a vivere di cassa integrazione nel reparto-confino di Nola, mentre a Pomigliano si facevano gli straordinari per sfornare le automobili – e la finta lettera di addio di Marchionne scritta dagli imputati, quella dove Marchionne chiede scusa agli operai confinati a far niente, e che a far niente hanno smarrito la voglia di vivere.

«Hanno inscenato un patibolo!», protesta il senior partner dello studio Toffoletto De Luca Tamajo e Soci, confondendo la messa in scena di una condanna a morte con quella di un suicidio, e non capendo comunque quale sia il nesso tra i suicidi veri «Sulle cui motivazioni stendiamo un velo pietoso» e quello finto di Marchionne, che però, più delle morti vere, costituisce «un incalcolabile danno d’immagine per quei paesi dove l’azienda investe!» (non l’Italia, dunque): «Tutti quei paesi dove i partner commerciali della Fiat hanno potuto vedere su You Tube il video di quella macabra incitazione alla violenza!», si preoccupa l’avvocato calcolando l’incalcolabile danno d’immagine, dimenticando che a Pomigliano nessun operaio è mai stato condannato per il minimo gesto di violenza, neanche un vetro rotto, nonostante una vertenza durissima che ha falcidiato undicimila posti di lavoro, su 13mila.

«Non è questo un esercizio del diritto di satira, che comunque deve essere sempre umoristica e ironica», spiega l’avvocato, confondendo la satira con le barzellette, «Non è questa una protesta sindacale, poiché iniziativa dei Cobas e non dei sindacati confederali», spiega l’avvocato, dimenticando che l’iniziativa sindacale appartiene per diritto a ciascun lavoratore, non solo ai sindacati che piacciono all’azienda, «Ma è un’offesa gratuita», spiega, dimenticando “il vincolo di continenza” innumerevoli volte riconosciuto dalla giurisprudenza alla libertà di manifestazione del pensiero attraverso la satira, per la quale le sentenze stabiliscono il diritto di utilizzare un linguaggio eccessivo, maleducato, scurrile, corrosivo, impietoso, surreale, se quel cattivo gusto spinto al paradosso serve a esprimere una critica puntuale, se serve a manifestare liberamente il proprio pensiero come recita l’articolo 21 stampato sulla maglietta dei licenziati a processo, che la moglie di uno prima di entrare in aula dice: «Mettetevela al contrario, non vorrei i che i giudici la vedessero come una provocazione».

«Una provocazione? La Costituzione?!». «Quella macabra recita di morte rappresenta piuttosto una lesione dell’onore e del decoro dell’azienda», spiega l’avvocato della Fiat, che non si era sentita lesa nell’onore e nel decoro quando, durante una precedente protesta, gli operai avevano messo in scena un’altra macabra recita di morte. La loro, imbrattando di sangue le tute blu. («Facciamo così perché è l’unico modo per finire sui Tg» dicono i cinque imputati: «I picchetti, l’azienda li salta con l’elicottero. Gli scioperi, troppi ce ne stanno. L’unico modo per attirare l’attenzione sulla nostra condizione è questo qui»).

«Ma così si mette a repentaglio il rapporto su base personalistica tra l’operaio e l’azienda», si rammarica l’avvocato, a proposito di un inesistente rapporto personale “su base personalistica” tra Sergio Marchionne e l’operaio Mimmo («Mimmo, come stai? Come ve la passate a Nola? Parliamone, dai, che ci tengo al nostro rapporto personale. Come te la cavi in cassa integrazione a 700 euro? Io li guadagno in mezza giornata di lavoro.»).

«Così si imbarbariscono le relazioni sindacali!», denuncia infine preoccupato l’avvocato della Fiat. Per questo i cinque operai sono stati licenziati. Per non imbarbarire le relazioni sindacali, patrimonio prezioso della democrazia, «che invece vanno preservate», spiega l’avvocato. Dimenticando che negli anni, mentre gli operai licenziati venivano puntualmente reintegrati, la Fiat ha collezionato condanne per condotta antisindacale, una dopo l’altra, senza curarsi dell’imbarbarimento. Novantadue.