Donald Sassoon è professore emerito di Storia europea comparata presso il Queen Mary College dell’università di Londra. Allievo di Eric Hobsbawm, si è occupato di storia del comunismo italiano, del socialismo e dei consumi culturali europei. Attualmente sta lavorando a un volume sulla parabola del capitalismo globale.

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Professore, dopo il referenum il genio è fuori dalla lampada. Che succederà?

C’è un clima d’incertezza che non sparirà certo fra un mese o due. Durerà parecchi anni e avrà un peso forte sulla politica e, soprattutto, sull’economia. Vedo esperti che, alle domande del pubblico su mutui, valuta, prezzi degli immobili, non sanno esattamente che consigli dare. Economie sofisticate come le nostre sono in continuazione alle prese con interrogativi che ricadono su tutta l’Europa.

E tutto per una decisione presa per motivi puramente interni di partito da parte di questo… preferisco non pronunciarmi. Insomma, che un evento di tale importanza scaturisca da motivazioni così piccine colpisce molto.

Come il fatto che proprio mentre non si parla altro che di globalizzazione, sempre maggiore marginalità degli stati eccetera, una cosa del genere dimostri quanto limitata sia questa visione. Certo, c’è la globalizzazione; c’è una resistenza a questa globalizzazione; e questa resistenza non è necessariamente di sinistra, come molti – ma non tutti – avevano capito da un po’.

Ma leggerlo unicamente come una scelta tattica sbagliata di Cameron nel solito solco della “storia fatta dai grandi uomini” non è una lettura da materialista storico quale lei è. Non dipende più dagli squilibri salariali in un’unione solo economico-finanziaria e non politica?

Veramente, gli squilibri salariali sono sempre esistiti: è la ragione per cui i braccianti veneti andavano a lavorare in America.

Ma non sono stati del tutto trascurati da un progetto che, sulla carta, aveva altri obiettivi e idealità? Poi, quando fa comodo, vengono tirati in ballo gli Spinelli e i Monnet.

L’Unione Europea è come una zuppa: chi sostiene che abbia prevenuto un’ulteriore guerra – cosa che non ha molto senso – chi ci mette la fratellanza; chi ci vede la libertà del capitale senza lacci e lacciuoli, e via dicendo.

Ed ha avuto successo in un certo senso proprio perché è una zuppa, gli idealisti ci vedevano una cosa, i neoliberisti un’altra. Insomma, è un po’ come la filosofia di Nietzsche: tutti ci vedono quello che ci vogliono vedere, la sinistra moderata l’ha vista come un modo di ottenere quello che non si riusciva ad ottenere attraverso lo stato, come le conquiste del lavoro. Ma la sua debolezza era anche la sua forza: perché se fosse stata solo una questione di abolire le dogane e i dazi si sarebbe fatto e basta.

Tutti quelli che l’hanno voluta davvero, dovevano volerne sempre di più, non di meno. Per risolvere i problemi attuali ne occorre di più.

E serve un politico coraggioso e temerario determinato ad andare avanti. Serve una fiscalità europea proprio nel momento in cui nessuno la vuole.

È anche vero che questo paese dall’Europa ha sempre preso quello che gli serviva. Ora non si possono criminalizzare più di tanto i due leader – Cameron e soprattutto Corbyn, di cui tutti vogliono la testa: in fondo provengono da due partiti essenzialmente euroscettici.

Questo paese è entrato in Europa quando è morto De Gaulle, aveva cominciato a bussare alla porta già negli anni Sessanta quando un Tory intelligente – quando ancora ce n’erano – come Harold McMillan decise di voler entrare.

Nemmeno il governo Blair è stato europeista fino in fondo: non ha voluto Schengen, non è entrato nell’Euro, ha provato con soundbite-fesserie del tipo: “dobbiamo guidare l’Europa”, rispolverato in extremis da Gordon Brown – personaggio tra i peggiori. Hanno continuato a scegliere cosa poter ostacolare o da cui poter uscire. È stata questa la partecipazione della Gran Bretagna. I grandi eurofili come Edward Heath si sono estinti negli anni Settanta.

Ma cosa ci si poteva aspettare in più da Corbyn in questo senso? Chi chiede le sue dimissioni non lo fa in maniera biecamente strumentale?

Su Corbyn è perfettamente vero che nei dibattiti televisivi era assente e se anche ha protestato sulla parzialità della Bbc non mi pare obiettivo. La lotta era soprattutto all’interno dei Tories: Corbyn avrebbe potuto e dovuto fare di più e senz’altro condividere una piattaforma con Cameron.

Nessuno degli altri leader di partito ha avuto un profilo prominente, nel dibattito si sono visti più backbenchers per il leave come Kate Hoey – che difende la caccia alla volpe – e Gisela Stuart. Che poi in un momento come questo, con il partito conservatore che è stato duramente sconfitto almeno nella leadership, quando un 70% dell’elettorato tory ha votato per uscire mentre il 60% degli elettori laburisti ha votato per rimanere, quando il premier dà le dimissioni, quando si prospetta una battaglia dura per vedere se Boris (Johnson, ndr) ce la fa e si prospettano negoziati durissimi per evitare che altri partiti eurofobi olandesi e in Francia prendano piede, insomma, in questo momento questo partito laburista, chiaramente il più idiota delle sinistra europea – e lo dico da socialista – non trova di meglio da fare che cacciarsi in una lotta interna.

Come leggere questo risultato percentuale: in un’ottica di classe o anagrafico-generazionale, come fanno tutti i media mainstream in Italia?

I risultati dicono 48% da una parte e 52% dall’altra. Quando si guarda a questo 52% si possono trovare tutta una serie di differenziazioni, non una: c’è quella generazionale e quella di classe. Anche fra gli storici c’è stata una frattura. Io ho firmato la lettera degli Historians for Britain in Europe in occasione della quale sono stato invitato – ironia della sorte, dopo trent’anni di tessera del Labour Party, a 11 Downing Street proprio dal cancelliere tory Osborne -, ma c’è anche la divisione regionale. E poi, anche a Londra. Nel quartiere di Islington il remain era al 75%, come a Hackney.

Entrambe zone del tutto gentrified.

Ma contengono anche una cospicua componente working class. E poi Bristol, Newcastle, Manchester, Liverpool… Se proprio dobbiamo fare questa analisi per me c’è da considerare l’aspetto dell’Inghilterra provinciale, non quella necessariamente subissata da immigrati: perché Leicester ha votato remain. Certo, dove invece d’immigrati ce ne sono molti, come a Doncaster, hanno votato Leave.

Questo per dire che è difficilissimo fare un’analisi esclusivamente di classe quando c’è un divario del due per cento, così come parlare di ignoranti contro intellettuali. Non funziona perché non tutti pensano esclusivamente al proprio vantaggio economico. Pensiamo ai farmers: non so come abbiano votato, ma se pensando ai soldi avessero votato leave si sono dati la zappa sui piedi per via delle sovvenzioni europee che ricevono, lo stesso vale per i gallesi.

Un’altra cosa da notare è che la crisi economica qui è minore che in altri paesi mediterranei. Cercare una causa ragionevole a questo gesto è un impulso da materialista storico, ma per me questa è una scelta del tutto irrazionale.

Tornando ai partiti: sull’Europa sono tiepidi da circa 40 anni. La stampa, a parte il solito Guardian, è contro, la televisione si sforza di essere imparziale. Mettiamo a confronto tutto questo con l’Italia, che è molto più euroscettica oggi di 25 anni fa – c’era un grande entusiasmo allora: se in Italia l’euroscetticismo è passato dal 4 al 30% ci si dovrebbe stupire ancor meno dell’Inghilterra, dove l’euroscetticismo, che era la metà 40 anni fa, è sì aumentato, ma non proporzionalmente agli altri paesi, come la Francia ad esempio. Insomma, il fenomeno va visto in una dimensione comparativa.

Ma l’assalto alla spesa pubblica, l’ossessione sul debito – che questo paese continuerà a perseguire più che mai ora che si trova in balia degli euroscettici – la stessa Ue ha scelto scientemente di seguirle comunque, col beneplacito di una socialdemocrazia europea che ha accettato di autoannullarsi nella sua funzione correttiva, pur sapendo bene che il capitalismo attraversa crisi ricorrenti. Quello che accade qui come in tutta Europa non è un chiaro segno di rifiuto di queste politiche?

Questo accade indipendentemente dall’Eurozona, il divario ricchi/poveri è cresciuto in Usa e forse di più in Gran Bretagna. Eviterei di leggere questo voto in maniera unidimensionale.

Ci sono molti che sono furiosi con queste politiche e non c’è dubbio, sapevamo che esistevano già: l’Ukip, che non esisteva dieci anni fa, ha preso quattro milioni di voti; in Italia, Grillo è uscito fuori dal nulla e prima di lui c’era la Lega Nord; in Francia Le Pen, Trump e lo stesso Sanders negli Usa.

Questa mancanza di fiducia generalizzata verso le élite in occidente c’è sempre stata. In fondo l’Uomo Qualunque nasce in Italia nel ‘46 e volendo uno potrebbe addirittura parlare di fascismo. Il fatto è che se non hanno un punto di riferimento ufficiale legittimato come un partito, un organo di stampa eccetera, gli scontenti tacciono. Ora che i mezzi di espressione li hanno, certi “politici” hanno deciso di farsene interpreti spaventando i partiti tradizionali.

Ma nello stesso tempo, dagli anni Ottanta in poi, una delle considerazioni principali sulla globalizzazione era che le idee keynesiane si basavano sullo stato come agente economico, ma era uno stato degli anni ’30, che non commerciava tanto.

Se uno guarda alla curva della globalizzazione, la vede salire dagli anni Sessanta, Settanta e Ottanta dell’Ottocento, poi c’è la botta della prima guerra mondiale e diminuisce, infine risale fortemente dal ’45.

Il modello keynesiano valeva quando c’erano condizioni internazionali forti per applicarlo. Quello neoliberista è stato adottato dal ’80 in poi nonostante tutte le turbolenze e le crisi accadute in seguito: possibile che nessuna sinistra si sia chiesta come mai sopravviva così bene?

Abbiamo un’ideologia che crede in più mercato e meno stato ecc; che provoca aumento della disoccupazione e non dei salari, eppure nessuno riesce a fare una vera lotta contro il neoliberismo.

E anche quando ci prova, in pochi casi come Syriza in Grecia, nel giro di meno di un anno si arrende. È questo il dilemma della sinistra di oggi. Io non ho ricette, posso solo dire che questo è il problema. Ma se non ce lo poniamo come fanno Blair e Renzi è chiaro che non si arriva a nulla.