Ambizione e rigore. Saskia Sassen ha entrambe le caratteristiche. Il suo rigore emerge nella mole di dati raccolti, elaborati e assemblati per dare rilevanza empirica alle ambiziose tesi che propone. Lo ha sempre fatto, in tutte le sue ricerche che hanno scandito una vita accademica all’insegna di un nomadismo intellettuale che l’ha portata a soggiornare in molti paesi – Argentina, Italia, Regno Unito, Stati Uniti – per comprendere una tendenza ormai divenuta realtà, la globalizzazione. Dal suo nomadismo intellettuale è infatti nato Global Cities (Utet), il libro che l’ha fatta conoscere al pubblico (e che è stato più volte aggiornato), ma anche le altre opere sui conflitti dentro e contro la globalizzazione (Globalizzati e scontenti, Il Saggiatore), le migrazioni (Migranti, coloni, rifugiati, Feltrinelli).

È però con Territorio, autorità, diritti (Bruno Mondadori) che il puzzle sulla globalizzazione è portato a termine. L’economia mondiale, le trasformazioni della forma-stato, il rapporto tra locale e sovranazionale, le possibili politiche di contenimento e opposizione al capitalismo sono lì, spregiudicatamente messi a tema. La globalizzazione non è una parentesi del capitalismo, è equiparabile alle sue tendenze e alla internalizzazione del capitale che, alla fine dell’Ottocento e nel primo decennio del Novecento, hanno visto dispiegarsi le politiche di potenza coloniali e imperialistiche dei paesi europei e degli Stati Uniti.

La globalizzazione ha scosso nelle fondamenta sia le relazioni tra gli stati – il sistema mondo di Giovanni Arrighi e Immanuel Wallerstein – che, nelle formazioni politiche di matrice liberale, il delicato equilibrio tra il potere giuridico, legislativo e esecutivo, assegnando a quest’ultimo un ruolo preponderante sugli altri due.

I padroni dell’austerità

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In questo tramonto dello stato liberale, Saskia Sassen assegnava ai movimenti sociali la funzione di argine politico alla colonizzazione mercantile della vita sociale. Quel che non poteva certo prevedere – il rigore la preserva da qualsiasi deriva profetica – è la crisi iniziata nel 2007. Tutto ciò che sembrava solido, si è dissolto nell’aria e invocare il ritorno dello Stato nazionale come trincea da dove combattere il neoliberismo è come gridare alla luna: allevia il disagio, ma non risolve un granché, come d’altronde testimoniano l’esito estivo delle vicende greche.

La messa in angolo del governo di Atene da parte dell’Unione europea fa emergere infatti la velleità di chi ha proposto lo stato nazionale come arma politica contro la logica neoliberista dell’Unione europea. Più che abbandonare lo spazio politico europeo, il conflitto contro l’austerità continentale rende evidente che l’unico spazio politico praticabile è proprio quello sovranazionale.

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Saskia Sassen è una attenta osservatrice partecipe delle vicende europee – passa molti mesi dell’anno in Inghilterra, dove ha tenuto seminari e corsi alla London School Of Economics – e ha visto dispiegarsi la crisi economica che ha messo in ginocchio intere economie nazionali (la Grecia, la Spagna, il Portogallo. L’Italia, stranamente, non è mai citata). Allo stesso tempo ha accumulato dati sulla crescita delle disuguaglianze sociali, sulla povertà, sul degrado ambientale e sulla riduzione di intere regioni dell’Africa in terre di rapina da parte di multinazionali e paesi emergenti. Fatti tutti noti, ma che l’hanno convinta a iniziare un nuovo puzzle, questa volta sulla globalizzazione dopo la crisi, una sorta di mappa sociale della «globalizzazione 2.0».

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Sicuramente il volume Espulsioni mandato alle stampe dal Mulino (pp. 288, euro 25) è da considerare un tassello di questo nuovo puzzle teso a rendere visibili le tendenze sistemiche sotterranee del capitalismo contemporaneo e a rendere visibili gli «espulsi». Per Sassen l’ultimo decennio ha visto dispiegarsi formazioni predatorie globali composte da imprese finanziarie e da quelle impegnate nella produzione di merci, nell’agricoltura. Il dato più inquietante è che sono formazioni predatorie che si muovono sottotraccia e che si sottraggono allo sguardo pubblico, cioè a quella sfera collettiva che potrebbe mettere in discussione la loro esistenza. Una delle vittime eccellenti della globalizzazione dopo la crisi è dunque la democrazia, senza che questo coincida con l’abolizione di alcuni diritti civili e politici.

Il lettore attento riconosce temi e argomenti cari ai teorici del capitalismo estrattivo come David Harvey. Saskia Sassen sottolinea però che quello che descrive è un processo che non vede ancora un punto di equilibrio. Le formazioni predatorie prosperano cioè in una condizione di perenne transizione, dove il passaggio da un capitalismo fondato sull’inclusione – gli anni d’oro del welfare state – a un capitalismo fondato sulla esclusione, vede una geografia sociale e politica variabile nel tempo e nello spazio.

Le faglie della world factory

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Un libro dunque ambizioso. L’avvio non lascia molti spazi all’ambiguità. Il capitalismo ha imboccato una strada dove sacrificare milioni di uomini e donne e intere regioni del pianeta alle logiche di accumulazione della ricchezza. È un sistema brutale, fondato sull’espulsione e l’esclusione: dal lavoro, dalla casa, dal villaggio, mentre crescono esponenzialmente le terre e acque morte per la selvaggia estrazione di minerali o per coltivazioni intensive di olio di palma o di piante destinante ad essere trasformate in biocarburanti. Milioni di uomini e donne sono così cacciati dal lavoro, a causa delle politiche globali di outsourcing, rendendo l’alta disoccupazione un fenomeno strutturale e permanente in Europa e negli Stati Uniti, con il conseguente innalzamento delle disuguaglianze e della povertà. I cantori del libero mercato non possono certo salvarsi l’anima sostenendo che nei cosiddetti paesi emergenti cresca l’occupazione e una classe media desiderosa di consumare e di occupare finalmente un posto al sole dell’economia mondiale. Questi sono dati transitori, perché il capitalismo, nella sua erranza planetaria, sa che sono paesi da usare fino a quando la ricchezza da estrarre non sarò finita. Le faglie manifestate dalla world factory cinese e dalle economie indiane, brasiliane e sudafricane fanno intravedere che anche in quei paesi la crisi rivela la stessa brutalità avuta in Europa e Stati Uniti. Il numero dei poveri, dei senza tetto, degli espulsi cresce dunque sia nel Nord che nel Sud del pianeta.

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Interessanti sono anche le pagine dedicate al ruolo della finanza nella «globalizzazione 2.0». Non senza ironia Saskia Sassen descrive come nelle imprese globali finanziarie chi lavora alacremente non sono broker o spregiudicati finanzieri. Questi sono l’ultimo anello di una catena che vede al lavoro fisici, matematici, informatici: tutti dediti alla elaborazione di algoritmi che facciano accelerare il flusso di capitali al fine di accumulare ricchezze «estratte» dalla finanziarizzazione dei bisogni sociali: la casa, il mangiare, il lavoro, la formazione, la salute. Tutti elementi che favoriscono l’indebitamento individuale e delle nazioni, vista la riduzione delle entrate fiscali dovute a politiche indulgenti verso la tassazioni dei profitti.

Per fronteggiare la crisi del 2007 dei subprime e quella successiva dei credit default swaps gli stati nazionali sono inoltre intervenuti per salvare imprese troppo grandi per fallire. E lo hanno fatto usando il denaro che i contribuenti hanno versato con le tasse. Una espropriazione ulteriore di ricchezza prodotta dal lavoro vivo sociale.

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Un altro elemento che nel libro ha un ruolo rilevante è il land grabbing, cioè l’acquisto di terre da parte di imprese agroalimentari o minerarie. Milioni di ettari di paesi africani, dell’Indonesia, dell’Ucraina e della Russia sono state acquistate da multinazionali e stati nazionali – gli Emirati del Golfo, ma anche la Cina e la Corea del Sud – per coltivare alimenti da immettere nel mercato mondiale. Lo stesso vale per le imprese minerarie. La brutalità di questo processo sta nel fatto che in Africa si sono moltiplicate feroci guerre locali condotte da «eserciti» che si candidano a gestire l’ordine pubblico in alcune nazioni e così svolgere un ruolo nelle formazioni predatorie che si muovono nel pianeta. In altri paesi è l’esercito «ufficiale» che caccia dalle terre i contadini. Da qui l’espulsione di milioni di donne e uomini che cercano una via di fuga verso l’Europa e gli Stati Uniti. Ogni distinzione tra rifugiato economico e politico perde così di significato. Anche se, avverte con acume Saskia Sassen, i costi maggiori degli esodi ricade nel Sud globale del mondo: la maggioranza assoluta dei rifugiati rimane infatti nel Sud del mondo, mentre nel Nord del pianeta arriva solo una biblica minoranza di rifugiati economici e politici.

Domande inevase

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Come interrompere questa discesa negli inferi è domanda alla quale Saskia Sassen non sa dare risposta. C’è amarezza, disincanto nelle pagine di questo libro. È un cambiamento di prospettiva che l’autrice invita a fare. Non c’è nessun punto di resistenza individuato, come invece aveva indicato l’autrice in altri libri. La società civile organizzata o i movimenti sociali non compaiono in questo saggio. Sono qui significanti vuoti rispetto una logica sistemica che non ammette punti di rottura. L’inversione della tendenza non è data. All’orizzonte non c’è nessun potere costituente che può garantire una fuoriuscita dal «capitalismo estrattivo». Ma non c’è neppure nessun potere destituente. La rivolta non è ammessa dalle formazioni predatorie: se si manifesta, va repressa duramente. E le città globali non sono neppure il luogo dove sperimentare forme di democrazia diretta e di cooperazione sociale «alternativa», come Saskia Sassen ha più volte sostenuto nel recente passato. Per il momento, il pensiero critico, l’attitudine critica servono, secondo l’autrice, solo a rendere visibile ciò che è invisibile.

Ma per rendere visibile l’invisibile serve un’operazione di verità. E dunque di rivolta, provando a coniugare il potere destituente della rivolta con il potere costituente che dà forma all’altro mondo possibile che l’azione di svelamento operata dai movimenti conducono. In fondo la politicizzazione le relazioni sociali è l’unica azione realistica di svelamento del potere performativo della vita manifestato dalle formazioni predatorie.

A Roma il Salone dell’editoria sociale

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Saskia Sassen sarà protagonista giovedì dell’incontro «Per un’Europa dell’inclusione e dei diritti» alla Sala della regina a Roma (ore 15). L’incontro organizzato dalla Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini è solo su invito. Per chi invece è interessato a una discussione sulle tesi del suo ultimo libro «Espulsioni» (Il Mulino) l’appuntamento è nella giornata d’apertura del Salone dell’editoria sociale che prende il via giovedì a Porta Futuro di Roma (Via Galvani, ore 17.45).

Quest’anno il Salone dell’editoria sociale è dedicato al tema della «Gioventù bruciata», cioè alle nuove generazioni che sono colpite dalle politiche di austerità che negano loro il futuro.

Ridotti sono i finanziamenti alla formazione, cresce in molti paesi il debito studentesco per pagare le rette universitarie sempre più alte. Minore la possibilità di entrare nel mercato del lavoro (l’esperienza della precarietà è ormai la regola nel capitalismo).

Eppure sono sempre i giovani il «target» privilegiato per spregiudicate campagne pubbicitarie di chi vende merci spacciandole per stili di vita più o meno alternativi.

Il programma del Salone dell’editoria sociale (consultabile per intero al sito internet: editoriasociale.info) prevede workshop seminari e presentazione di libri.

Nella giornata di giovedì, oltre l’incontro con Saskia Sassen, sono da segnalare la tavola rotonda «Il terzo settore alla deriva?» (ore 16) e «Stranieri per forza» (ore 16.15, sala B).

Il giorno dopo, ore 16, tavola rotonda su «Welfare, reddito, lavoro. Le sfide della generazione precaria». Alle 18 sarà invece presentato il libro, curato da Sbilanciamoci, «Workers Act». Domenica, invece, è la volta della presentazione del volume «I Muri di Tunisi», un’analisi dei murales e dei graffiti nella capitale tunisina prima e dopo la primavera araba. A presentarlo Michela Becchis, Cecilia Dalla Negra, Luce Lacquanita (autrice del libro) e il graphic journalist Takoua Ben Mohamed.