«Come una spirale in cerchi infiniti, il tempo corre e le esperienze e le prospettive di chi lo attraversa si sovrappongono per contraddirsi a vicenda». Memoria e dimenticanza sono gli elementi mobili e irregolari che Sasha Marianna Salzmann mette in scena nel suo Fuori di sé, (Marsilio, traduzione dal tedesco di Fabio Cremonesi pp. 347, euro 18). Tra le autrici più attese al Salone del Libro di Torino (sabato alle 17.30, sala internazionale, in dialogo con Francesco Pacifico), il suo romanzo d’esordio è già tra i finalisti al premio Strega Europeo.
Decenni difficili e controversi, da una piccola casa di Mosca alla volta di Berlino per scampare all’antisemitismo, infine l’approdo a Istanbul. Il ricordo però è un grimaldello difettoso, si prende gioco degli accadimenti, preferisce scappatoie e interstizi. Tutti i protagonisti del romanzo sono «intrappolati nella memoria, non riescono a superarla – specifica la scrittrice -. Convivendo con un passato indelebile, non possono immaginare un futuro né possono adattarsi al presente. Quindi sono bloccati, in scacco. È il tempo, che corre e li muove come desidera».

Avere memoria della storia e degli affetti. Come ha mediato tra le due istanze?
La memoria è uno strumento inaffidabile per comprendere il mondo in cui viviamo, sia esso un ricordo di eventi storici o della propria famiglia. Arrivando dall’Urss, dove la storia e i libri scolastici sono stati riscritti e censurati in continuazione, so bene che non ti puoi fidare dello storytelling ufficiale – è sempre scritto da quelli che si considerano i vincitori e con cui solitamente non sono d’accordo. Avendo l’esperienza di quanto flessibile e manipolabile possa essere il ricordo di famigliari e amici, cerco di essere paziente ma attenta a tutto ciò che le persone tentano di portarmi come unica verità.

Lei ha scritto che «abbiamo peccato e dovremo pagare per questo». Cos’è il peccato? Quale il prezzo?
Stavo spiegando cosa significa per me la citazione di James Baldwin, che ho messo in apertura del mio libro. Ho scelto lui perché penso che tutti noi portiamo una quantità considerevole di traumi non elaborati, ci conviviamo e ci fanno ammalare. Se considero il crimine che la società tedesca ha commesso sulla popolazione ebraica, è facile capire quanto sia decisivo elaborare e lavorare sulla memoria della Shoah. Ma che dire di tutti i peccati non detti, messi a tacere? Che dire dei crimini coloniali europei? Sono in noi. Per quanto riguarda i settanta anni di dittatura che i corpi dell’era post-sovietica ancora portano (persone come me), le loro vite in Europa sono ancora influenzate dai crimini del passato. Abito con un corredo di antenati che hanno attraversato lo stalinismo e non so neanche cosa abbiano dovuto fare per sopravvivere. So che alcuni dei miei incubi appartengono a una conoscenza inconscia delle cose accadute alla mia famiglia e che non mi diranno mai, principalmente perché hanno rimosso i loro ricordi per non morire e «funzionare» nei regimi in cui vivevano. Il prezzo che paghiamo se non guardiamo ai traumi delle nostre società è che diventeranno anche i «nostri» traumi. I lavori scientifici sulla trasmissione intergenerazionale lo stanno dimostrando.

La protagonista del suo romanzo, Ali, vive il tormento di non sapere, di non appartenere, di una negazione costante. Come trasforma il dolore?
Ha imparato a sopravvivere, con la priorità di inspessirsi la pelle, di farsi una corazza. Ali non parla molto né condivide, non dà spazio ai suoi sentimenti. L’unica cosa che le è cara è il fratello Anton; quando scompare, le sue mura interne iniziano a tremare. Lui è il punto mancante, un’area di proiezione, saltava via dal mio stesso sguardo come un raggio di luce. L’ho seguito insieme ad Ali che, non avendo niente di più amato a trattenerla, lascia Berlino per cercare il suo gemello fino a perdersi in una città che le toglie il fiato: Istanbul.
Nella lontananza da tutto il conosciuto fino a quel momento, comincia a guadagnare più forza e guarda indietro fino al punto della propria provenienza. Ha così il coraggio di formulare domande sul suo passato.

Anarchia, comunismo, case occupate, rivolte. In che modo incontra la libertà?
Ne fa esperienza attraverso la comprensione che però non raggiunge interamente, non ha cioè bisogno di essere come chi brama solo la stabilità nella propria esistenza. D’altro canto non c’è nulla che Ali non abbia intrapreso per appartenere a una comunità, ma niente l’ha fatta sentire a casa. Anche prendere il testosterone per sfidare il suo genere e trasformarsi in un nuovo corpo non la conduce presso se stessa, non le fa fare ritorno alla propria pelle. A un certo punto del viaggio però comprende, va bene così. Ecco come in effetti è. Potrebbe essere la più grande libertà, dire qui dentro non ci sto. Mi sento bene con altro.

Interrogare il corpo, la sua scoperta, il suo cambiamento, quanti significati assume?
Poiché i miei protagonisti sono gemelli, è stato molto stimolante pensare allo sviluppo fisico di Ali e Anton. Le domande sono state tante: si tratta di una unica entità? Come possiamo decifrare i limiti dei nostri corpi accanto a un corpo di qualcuno che amiamo? Cosa significa la mescolanza? Vi è stata poi una parte brutale degli incontri con i corpi altrettanto importante da esplorare, in che modo per esempio l’esperienza della violenza fisica definisce chi saremo.

Come si è confrontata con la sessualità e la transizione vissuta da Ali?
Sono affascinata dal fatto che i corpi transessuali realmente mostrino come si è costruito il genere. Come per esempio i genitali e l’aspetto superficiale non siano necessariamente collegati a chi sei e intendi essere in questo mondo. Non avevo in programma di scrivere un libro simile, tuttavia volevo pensare ai confini – della lingua, della nazionalità e, naturalmente, anche del genere, poiché sono discussioni importanti oggi. Ali sta trasgredendo tempo e spazio, lei è qualcuno, sfida davvero ogni aggettivo, è stata etichettata sin dalla sua nascita. Quella che fa è un’azione coraggiosa. Il gender hacking è uno degli atti più politicizzati del nostro tempo.

Fluidità materiale che è anche simbolica. Quanto conta l’invenzione di nuove forme di linguaggio e comunicazione per lei?
Non potevo scrivere in una lingua immobile (nel mio caso tedesco) e con le sole regole che avevo imparato. Sapevo che dovevo trovare una struttura capace di comprendere una pluralità di parole. Che potesse indicare come ci si avverte quando non si capisce tutto, com’è quando ci si dimentica, cosa si prova a perdersi nel suono di un’altra lingua.