Si farebbe un torto alla memoria di Giovanni Sartori, morto ieri a 92 anni, se la sua figura fosse abbinata soltanto alle polemiche politiche e giornalistiche degli ultimi vent’anni o all’invenzione di alcune formule di successo (come il Mattarellum e il Porcellum). No, Giovanni Sartori va innanzitutto ricordato come uno dei maggiori scienziati politici del Novecento, e come una delle (non molte) figure di intellettuali italiani dotate di un respiro internazionale.

Già con il suo primo importante lavoro, Democrazia e definizioni, pubblicato in Italia nel 1957 e poi negli Usa (Democratic Theory, 1962) Sartori si pone come una figura di primo piano della scienza politica contemporanea: e il suo lavoro può ben essere collocato alla stessa altezza di autori come Robert Dahl. Un approccio, quello di Sartori, che si muoveva nel segno di Schumpeter e del suo elitismo competitivo, ma arricchito da una sensibilità teorica che nasceva dalla sua formazione filosofica. A ciò, Sartori aggiungeva un tono e un atteggiamento «realistico», che gli veniva dalla tradizione della scuola elitistica italiana del primo Novecento: una visione disincantata della democrazia, che rifuggiva da un sovraccarico di aspettative normative e idealizzanti, o da quelle visioni «perfezionistiche» che presumevano di attribuire virtù salvifiche alla partecipazione politica o confidavano nell’ideale di un cittadino informato, attivo e consapevole. Anche per questo Sartori divenne oggetto di polemiche, molto rispettose, ma anche molto accese, già nel corso degli anni Sessanta, da parte dei primi teorici della «democrazia partecipativa» (come Carole Pateman). Accanto alla teoria della democrazia, a cui dedicò nel 1987 The Theory of Democracy Revisited , i partiti e il sistema dei partiti sono stati l’altro grande asse tematico della sua ricerca: il suo Parties and party systems, del 1976, si può considerare oramai un classico della scienza politica contemporanea.

Sartori ha contribuito in mode determinante, dalla sua cattedra alla “Cesare Alfieri” di Firenze, alla nascita e al consolidamento anche accademico della scienza politica in Italia; ma ha vissuto con disagio, e persino con apprensione, il movimento del 68 e il suo impatto sull’università italiana. Ciò che lo portò, agli inizi degli anni Settanta, a trasferirsi negli Usa, dove a lungo ha insegnato alla Columbia University.
Sartori assume una concezione rigorosa ed esigente della scienza politica: non una scienza «esatta», ma nondimeno una scienza che è in grado di produrre asserzioni verificabili empiricamente, fondata sull’uso comparato di concetti ben definiti e controllati, e perciò anche suscettibile di essere «applicata». Da qui anche il suo aperto richiamo alla possibilità di un’ingegneria costituzionale o elettorale. Ma, si badi, ingegneria, non bricolage: ossia, una possibile proiezione applicativa che avvenisse in modo rigoroso, sulla base di asserzioni ipotetiche e controfattuali, senza i pressapochismi che abbiamo visto e vediamo spesso all’opera e a cui Sartori ha rivolto i suoi sarcastici strali. Una lezione di rigore intellettuale, consegnata a una serie di saggi metodologici, recentemente tradotti e raccolti in italiano (Logica, metodo e linguaggio nelle scienze sociali, 2011) che possono essere considerati come una delle sue eredità più preziose (a fronte di una scienza politica sempre più incline alle sofisticherie quantitative, e sempre meno attenta alla precisione dei concetti e delle teorie). Insomma, la lezione di un grande conservatore, in grado di insegnare molto anche a chi non ne condividesse le premesse politiche e culturali.