Niente, le armi non si toccano. Il decreto Conte appena entrato in vigore è chiaro: «Sono consentite le attività dell’industria dell’aerospazio e della difesa, nonché le altre attività di rilevanza strategica per l’economia nazionale». Gli appelli lanciati dalle organizzazioni pacifiste nelle scorse settimane sono caduti nel vuoto. Con una sola eccezione, che però non è stata voluta da Conte e dai suoi ministri.

È infatti l’azienda stessa, d’accordo con le rappresentanze sindacali, ad aver deciso di chiudere temporaneamente, sinché dura l’emergenza Coronavirus, lo stabilimento Rwm che a Iglesias, in Sardegna, produce la maggior parte della bombe che, vendute all’Arabia Saudita, sono utilizzare dall’aviazione di Ryad nella guerra in Yemen, spesso contro civili inermi.

«Su nostra proposta la decisione è stata presa da Rwm – informano i sindacati – per ridurre al minimo i rischi per il territorio in un momento in cui le strutture sanitarie sono esposte nel fronteggiare l’emergenza in atto».

Come sia da interpretare la mossa dell’azienda, lo spiega il «Comitato per la riconversione della Rwm», gruppo di base che da anni si batte non perché la fabbrica chiuda ma perché sia riconvertita verso produzioni non militari: «Siccome il sito, in base alle norme di sicurezza vigenti, è considerato a forte rischio per la possibilità di esplosioni, la multinazionale tedesca decide di chiudere per evitare di gravare, nell’eventualità di un incidente, sul sistema sanitario locale».

Non si blocca la produzione, quindi, perché sfornare bombe da vendere ai sauditi è non essenziale in una situazione come quella creata dall’epidemia, ma perché, nel malaugurato caso di un incidente, le conseguenze potrebbero essere tali da stressare ulteriormente un sistema sanitario già sottoposto a una prova eccezionale. Che è già qualcosa. Ma allora, la stessa motivazione che ha spinto Rwm e i sindacati a sbarrare i cancelli dello stabilimento, per quante altre fabbriche d’armi in Italia è valida?