In Rua da Esperança, a Lisbona, quartiere di Madragoa, è possibile visitare l’appartamento dove José Saramago ha vissuto con la scrittrice Isabel da Nóbrega fra il 1970 e il 1986. Non si paga per entrare, non c’è vigilanza e la porta è quasi sempre aperta; anche chiusa, basterebbe una spallata per aprirla e camminare sulle assi scricchiolanti del pavimento, curiosando fra i molti oggetti, chissà quali originali: libri, seggioline dipinte, la macchina da scrivere sopra alla scrivania del salotto, il telescopio sul treppiedi, l’alcova polverosa dove si può, stavolta pagando, persino dormire. È un luogo di grande fascino e manutenzione scarsa, sicuramente diverso da quelli «ufficiali»: la Fundação José Saramago, nella Casa dos Bicos, palazzo storico dell’Alfama, o la sua sede staccata ad Azinhaga, nel Ribatejo, paese natale dello scrittore. E diversissimo, immagino, dalla «casa fatta di libri», cioè quella di Tías, Lanzarote, ultima residenza di Saramago e della seconda moglie, Pilar del Río, giornalista e traduttrice andalusa, dove tutto – la scrivania perfettamente ordinata, la biblioteca organizzatissima, il caffè aperto ai visitatori – suggerisce controllo e tracciabilità della filiera: lì è stato davvero tutto suo, tutto di Saramago, compreso l’olivo portato in vaso da Azinhaga e ambientato in giardino con pazienza. Una scelta, questa di trasferirsi alle Canarie (poi molto amate), motivata dalle polemiche sorte dopo il rifiuto, da parte del governo portoghese, di lasciare che Il Vangelo secondo Gesù Cristo, giudicato blasfemo, partecipasse al Premio Europeo di Letteratura.

Né sulla sfera privata né sul Nobel
I Quaderni di Lanzarote, scritti fra il 1993 e il 1997, sono oggi finalmente completi: esce anche da noi il sesto quaderno, quello del 1998, con il titolo Diario dell’anno del Nobel (traduzione di Rita Desti, Feltrinelli, pp. 272, e 18,00), di cui si conosceva l’esistenza perché Saramago stesso ne aveva promesso la pubblicazione ma che era andato (curiosamente) quasi perso, ritrovato infine l’anno scorso negli archivi del suo computer, vent’anni dopo essere stato scritto. Dell’intimità che il termine diario parrebbe suggerire questo libro non ha, prevedibilmente, quasi niente. I Quaderni rappresentano infatti, per Saramago, l’occasione di raccogliere articoli pubblicati altrove o di mettere al sicuro, riunendoli assieme, lettere private, ricevute magari dagli ammiratori, e interventi suoi destinati alla lettura a voce alta, in occasione di congressi e incontri fra scrittori.

n materiale tutt’altro che inerte e che anzi testimonia la vivacità delle opinioni di questo grandissimo scrittore, nato in una famiglia di contadini senza terra, autodidatta, dichiaratamente comunista: la sua cupezza circa le politiche europee e internazionali, la sua visione del mondo e della cultura; le notizie che lo colpivano (il 10 giugno annota soltanto: «Scoperta in Amazzonia una tribù sconosciuta»); persino alcune riflessioni in tema di migranti che danno i brividi, a leggerle oggi – specialmente oggi – per quanto sono attuali. Pagine essenziali, ma pettinate, messe in ordine per il lettore; quando, nei romanzi, la sua scrittura somiglia più a un difficile arrancare sugli scogli, fra pozze d’acqua ferma e schiaffi d’onda. Pochissimo è concesso inoltre alla sfera privata, poca soddisfazione per il voyeur; come poco è concesso al Nobel: dopo l’assegnazione del premio e almeno fino ai primi di dicembre, i ragionamenti lunghi e circostanziati si trasformano in un via-vai di appunti frenetici: interviste rilasciate, appuntamenti, cene al ristorante – rendendo il diario più che mai simile a un’agenda.

Eppure l’uomo Saramago, il cui cognome era in realtà un soprannome di famiglia aggiunto per sbaglio sull’atto di nascita del piccolo José (il termine saramago indica una pianta spontanea, il ravanello selvatico, amaro e irsuto però gustoso), compare qua e là come la pianta che gli ha dato il nome, quando la riservatezza cede il posto all’autoironia: si veda l’episodio della cartellina dei documenti persa all’aeroporto di Fuerteventura o quando, fresco di Nobel, si accovaccia a scegliere calzini nel ripiano basso dell’espositore, al Corte Inglés, richiamando l’attenzione di un fan perplesso che gli chiede: «Es usted José Saramago?». O nella meravigliosa intervista a «Playboy», dove è descritta la sua giornata-tipo: le trenta vasche quotidiane in piscina, la distribuzione di fette di banana ai tre cani, la scrittura mattino e sera; e dove parla dell’approdo tardivo alla letteratura: «Se fossimo sicuri di avere una vita lunga, forse varrebbe la pena serbare per la parte finale quello che abbiamo realmente da fare», risponde, interrogato.

In effetti, anche se aveva cominciato a scrivere nei primi anni Quaranta, da giovane quindi, già nel ‘47 abbandonò l’impresa perché, afferma nella sua autobiografia, «era chiaro che non avevo niente da dire». Solo con Una Terra chiamata Alentejo e Memoriale del convento, entrambi forse battuti alla macchina da scrivere della casa di Rua da Esperança, Saramago diventa Saramago: «Devo riconoscere», scrive in Diario dell’Anno del Nobel, «che le cose belle della vita sono arrivate un po’ tardi».

Un vociare di memorie
Molto intima, infine, struggente, la riproduzione del discorso pronunciato durante la cerimonia di premiazione a Stoccolma, che da solo varrebbe l’intero quaderno. Ricordando «l’uomo più saggio che ho conosciuto», suo nonno Jerónimo, analfabeta, Saramago scrive di quando, le sere d’estate, andavano insieme a dormire sotto un fico: «la notte si popolava con le storie e le avventure che mio nonno mi raccontava: leggende, apparizioni, paure, morti antiche, risse, parole di antenati, un instancabile vocio di memorie che mi teneva sveglio, e insieme mi cullava dolcemente». Confermando quella natura misteriosa delle storie che Saramago sottolineava tanto, dove lo scrittore ha il compito non di inventare ma di intercettare questo «vocio di memorie», sempre pronto, come scriveva di sé João Guimarães Rosa, ad acchiappare una storia al volo e darle svolgimento.