Cosa significa ricordare e cosa e come ricordiamo o dimentichiamo? Sta in questa domanda, in questo interrogarsi – e nel porsi riflessioni sul senso del filmare e su come esso sia cambiato nel tempo con l’avvento di tecnologie che hanno reso bulimico quell’atto, in precedenza compiuto scegliendo parsimoniosamente che cosa riprendere, magari cancellando immagini già girate per fare posto ad altre – il cuore di Balkanica, lungometraggio documentario, reportage in soggettiva per voce e immagini, realizzato da Marianna Schivardi, nata a Brescia nel 1974, regista di videoclip e documentari (tra i quali 69 Bites, del 2008, che ha per set il dietro le quinte di un film porno). Con Balkanica (in concorso a Filmmaker Festival, verrà proiettato domani alle 19 al cinema Arlecchino di Milano, alla presenza dell’autrice), Schivardi compie un lavoro di scavo nella memoria, la sua personale e quella dei Balcani, ri-andando con lo sguardo e con il corpo nella Jugoslavia in fiamme d’inizio anni Novanta quando scoppiò una guerra che portò a separatismi, nazionalismi esasperati, conflitti etnici mai risolti, sgretolamento di un paese, divisioni settarie, macerie urbane e umane, massacri indicibili, città e campagne sventrate, regolamenti di conti ancora in corso.

NEL 1992, Schivardi aveva 18 anni e si recò per la prima volta nei Balcani con il fotografo di guerra Massimo Sciarra e il regista Kristoph Tassin per fare un film sulla guerra (nell’aprile di quell’anno iniziò l’assedio di Sarajevo). Filmò, incontrò persone che l’aiutarono, entrò in contatto con un mondo di giovani artisti, reporter, registi. E trent’anni dopo ha deciso di ri-affacciarsi su quei luoghi e di andare a cercare alcune delle persone che aveva conosciuto allora. Con l’intenzione di filmare ancora, di nuovo, senza sosta, di interrogare il passato e il presente, di mettere in atto una «seduta» collettiva nel corso della quale ri-conoscersi, oppure no, in quelle immagini, ri-osservarle insieme, mentre intanto si continuano a produrre altre immagini, altri archivi.
La voce di Schivardi fa da legame tra ieri e oggi, oggi e ieri. Tornare. Partendo dall’albergo dove aveva alloggiato. «Sono di nuovo nello stesso hotel, lo stesso identico odore. Ho deciso di partire da qua, dall’ultimo posto in cui ho dormito prima di andarmene, senza più tornare. È strano, anche se è il posto più vicino nel tempo, è quello che ricordo meno», dice Schivardi in un significativo passaggio del suo testo diaristico che accoglie la questione essenziale sviluppata in Balkanica riferita al processo che si compie nelle nostre menti. E riparte dagli stessi edifici segnati dalle bombe, dalle strade. Per re-immergersi in un ambiente noto e mutato, come mutati sono gli amici ritrovati. Il viaggio che ri-inizia a Belgrado copre poi più posti – Sarajevo, Pristina, una enclave serba in Kosovo che la filmmaker vuole ritrovare, alla quale è rimasta molto legata. Si creano nuovi dialoghi che, sempre, ruotano attorno al concetto di memoria: la propria, quella delle immagini filmate o fotografate.

LE IMMAGINI aiutano o ostacolano in questo percorso sospeso tra il ricordare e il dimenticare? Ci sono due dei tre registi che nel 2002 diressero Do You Remember Sarajevo (girato nel corso di dieci anni, di cui si vedono degli estratti e che per Schivardi è un punto di riferimento). C’è il direttore della Cineteca che non ha mai smesso il suo lavoro e «crede ancora che le immagini siano a disposizione dei popoli», commenta Schivardi. C’è un uomo che è diventato regista e che lei segue all’anteprima del suo film. I tanti formati diversi da cui provengono le immagini si alternano, dicono anche come sia cambiato il modo di fare film, le fragilità che contengono e l’infinita necessità di non smettere di filmare.