Con Bela Tarr presidente di giuria, si avvia verso la conclusione (sabato) il 20° Sarajevo Film Festuval. Un’edizione ricca di ospiti e film per la manifestazione bosniaca che si è conquista in fretta il ruolo di principale appuntamento cinematografico per il cinema della regione. Una «regione» peraltro sempre più allargata, che si spinge a includere anche i film dell’area caucasica. Il grande regista ungherese, dopo l’annuncio che Il cavallo di Torino è stato il suo ultimo lungometraggio, ha aperto nella capitale bosniaca la Sarajevo School of Science and Technology, e l’anno scorso aveva ritirato l’Heart of Sarajevo onorario. Con lui in giuria, tra gli altri, le attrici Melissa Leo (Oscar per The Fighter e Fiume di ghiaccio) e Orsi Toth. Nella giuria documentari c’è anche il produttore italiano Stefano Tealdi.
L’omaggio è dedicato a Michael Wintebottom, uno dei primi a realizzare un film sulla guerra di Bosnia con Benvenuti a Sarajevo (’97). Il festival presenta cinque dei suoi lungometraggi, compreso Cose di questo mondo, e oggi ospiterà un incontro pubblico con il regista inglese. Quest’anno ci sono anche tre premi onorari, al regista di casa Danis Tanovic, all’attore messicano Gael Garcia Bernal e ad Agnès B., designer e creatice di moda che lo scorso anno ha debuttato con il lungometraggio Je m’appelle hmmm…
Le proteste del febbraio scorso contro la classe politica e la corruzione in Bosnia fanno capolino anche in alcuni film locali, nella sezione per le produzioni bosniache, seppure di livello modesto. Sui titoli di testa del suo Nine Positions Of Loneliness, Enver Puška dichiara che il film non ha ricevuto nessun contributo pubblico e accusa i politici per il museo nazionale chiuso da due anni. Peccato che l’intreccio di nove personaggi uniti dai messaggi che si scambiano su un blog sia banalotto. Più interessante Racket di Admir Buljugic, nel quale un fotografo tornato a Sarajevo per pochi giorni in visita al padre si trova ad affrontare un estorsore che pretende soldi dall’impresa paterna e il ministro che lo protegge. L’eroe improvvisato scoprirà il modo di fare giustizia per la famiglia e per il paese.
Il concorso comprende nove lungometrggi, quasi tutte storie di donne o di ragazzini, e cinque sono di debuttanti. Per lo più sono film già passati ai festival di Berlino o Cannes, o anche a Locarno come A Blast di Syllas Tsoumerkas e Cure – The Life Of Another della serbo-svizzera Andrea Štaka. Ci sono anche tre prime mondiali, il turco Song of My Mother – Klama dayika min di Erol Mintas, il kosovaro Three Windows And A Hanging – Tri dritare dhe nje varje di Isa Qosja e il georgiano I am Beso – Me var Beso di Lasha Tskvitinidze, che domani sera chiude la competizione.

21VISSIN2635_0

Sia il film di Qosja, noto per Kukumi del 2005, sia il debutto di Mintas hanno motivi di interesse. Three Windows And A Hanging è ambientato in un piccolo villaggio qualche anno dopo la guerra del ’99. La vita è ricominciata, anche se il tempo pare essersi fermato per una società molto tradizionale: gli uomini si ritrovano tutti al bar dove le donne non entrano. La maestra Lushe è ben voluta dai suoi scolari, ma a una giornalista straniera (la serba Mirijana Karanovic, non nuova a ruoli difficili) confessa di essere stata violentata da soldati serbi insieme ad altre tre donne del villaggio pochi giorni l’inizio dei bombardamenti della Nato. Quando gli uomini scoprono la notizia vanno in agitazione. Il capovillaggio, l’arrogante Uka, cerca di coprire tutto e di incolpare l’insegnante: l’avere una donna abusata in casa è una vergogna. Sokol, che ha sempre avuto il dubbio che la moglie Nifa avesse subito violenza, insiste per sapere la verità. La lotta solitaria di Lushe, accusata di «comportarsi come un uomo» per farsi rispettare, suo figlio Beni che cresce prima del tempo e, come suggerisce il titolo, un’impiccagione. Tra dramma e risate una storia che mette in discussione una società maschilista.
«Mio marito è stato in carcere per sei anni». Riassume così l’esordiente Tinatin Kajrishvili lo spunto di partenza del suo bel Brides. Anche qui donne senza uomini, perché reclusi. Una storia d’amore tra la bella sarta Nutsa e Goga che ha sette anni da scontare. Un problema sociale (anche In Bloom di Nana Ekvtimishvili e Simon Gross, pellicola rivelazione dell’anno scorso, una delle protagoniste aveva il padre carcerato). Lunghe pene per piccoli reati, che non sono neanche nominati. La regista ha un tocco personale e misurato nel raccontare le umiliazioni degli sbrigativi matrimoni in carcere o le estenuanti perquisizioni prima di essere ammessi alle visite. E c’è Patriottismo di Yukio Mishima, con il doppio suicidio di marito e moglie, citato da Goga e forse presagio dei destini.
Riuscito è pure Song Of My Mother del turco Erol Mintas, da un punto di partenza personale. Il prologo è a inizio anni ’90, con un maestro curdo arrestato durante una lezione. «Sono stati gli anni più duri per noi curdi – ha spiegato Mintas – ero un bambino ma ho ricordi vivi. Era proibito parlare la nostra lingua in pubblico, molti hanno dovuto lasciare i villaggi e trasferirsi nelle metropoli. Oggi la situazione è migliorata, ma bisognerebbe poter studiare il curdo a scuola: non per nazionalismo, ma per diritti umani, ognuno dovrebbe poter studiare la propria lingua madre».
Nel film un insegnante e scrittore curdo si trova gestire l’anziana madre (intense l’interpretazione di Zubeyde Rohani) che cerca una vecchia canzone popolare e sogna di tornare al villaggio: insiemee ridono guardando Charlie Chaplin in televisione.
È solo uno dei vari film turchi in programma. Dalla Palma d’oro Winter Sleep di Nuri Bilge Ceylan a The Lamb – Kuzu di Kutlug Ataman, a Mavi dalga – The Blue Wave di Zeynep Dadak e Merve Kayan. Due registe esordienti per la storia di un gruppo di ragazze all’ultimo anno delle scuole superiori, indecise tra cosa studiare all’università e anche nell’amore. Alla protagonista Deniz piace il compagno Kaya, ma non è insensibile all’insegnante Firat. Sullo sfondo la costruzione di un gasdotto, quello del titolo, che sembra costituire una speranza ma si rivelerà una delusione generale.