La conclusione di un diario ha necessità di essere scritta per apparire reale. In quella «fine» che Sarah Manguso sussurra nel sottotiolo di un libro breve e lampeggiante come Andanza (nn editore, pp. 114, euro 15, traduzione di Gioia Guerzoni con le illustrazioni di Marco Petrella) c’è il morso di una parola che, per essere pensata, aspira a essere agita.

È la perizia del «termine ultimo», l’esercizio di una prassi dell’esistente che ha al suo centro il tempo, nel suo scorrere, come senso interno di un compimento. Per arrivarci, a quel momento in cui si intuisce che l’esito delle cose vissute quasi mai coincide con la realizzazione di sé, non ci si può mostrare impreparati. Soprattutto quando si apprende che per venticinque anni Sarah Manguso ha preferito la cronaca delle sue giornate a qualsiasi altra distrazione. Lavorando senza tregua, impietosamente su blocchetti e quaderni, tutto per evitare la disinfezione del sentire. E per asserire di essere stata in grado di non disperdersi, di non abbandonarsi, e di riuscire nell’impresa di guardarsi da fuori. Poter collaudare, insomma, anche il principio della possibile falsificazione, carta alla mano, una protesta appassionata contro la smemoratezza.

SMILZO eppure consistente, Andanza ha la sinuosità lessicale e ritmica scelta nel titolo. Procede senza vertigini, senza eccessi, saldo come tanti minuti passi, uno dietro l’altro. Avanti e indietro, nel pieno governo sentimentale, determina il metodo rigoroso secondo cui è nell’atto stesso dello scrivere che si è nel presente, dimensione temporale che secondo la scrittrice è perimetrabile nell’assenza di memoria, crocicchio di immagini futuribili e ricordi trascorsi. Più che cronache, le pagine di Sarah Manguso sono brevi meditazioni filosofiche, «momenti di essere» che – come per Virginia Woolf, anche lei sapiente signora di un importante diario – scansano l’enumerazione algida dei fatti per distillarne il movimento.

«Il passato ritorna soltanto quando il presente scorre così piano da assomigliare alla liscia superficie di un fiume profondo». È una danza lieve, un camminare verso il continuum della storia, come delle vite che la compongono. Così l’io acuminato si flette per non spezzarsi, segue la curvatura paziente delle cose. Anche quando è l’esistenza che arriva addosso a ricordare quanto si è stati improvvidi a non averne saputo assaporare i singoli istanti.

GIUNGONO allo stesso modo, ci dice Andanza, l’amore, la maternità e la relazione con una creatura piccola, la malattia, le perdite; una costellazione comune a molta umanità, si potrebbe dire. Se non fosse per la superficie di quel fiume profondo di cui parlava Woolf e da cui anche Manguso mostra di volersi sporgere, si immerge nei fondali ma poi ritorna a galla.
È una densità, dobbiamo immaginare questo piccolo libro – ci rammenta la sua autrice – «come materia oscura, o come una delle sessantasette lune di Giove o come qualunque altra cosa reale che bisogna accettare sulla fiducia».