«Le donne africane devono essere presenti ovunque, nelle immagini, dietro alla macchina da presa, in sala di montaggio, in ognuno dei passaggi che determinano la produzione di un film. Devono essere le sole a parlare dei loro problemi» diceva Sarah Maldoror. Lei lo ha fatto sempre, pioniera del cinema panafricano, voce dei dissidenti e degli oppressi. Il cinema per Sarah «la guerriera» come la chiamava Jean Genet, femminista, nomade, francese di nascita, angolana di adozione – nel senso che sarà l’Angola il Paese a cui è più legato il suo lavoro di cineasta – è stato subito uno strumento di lotta e di liberazione, da quando nei primi anni Sessanta è arrivata a Mosca per frequentare la scuola del VGIK – dove aveva conosciuto Sembene Ousmane. O forse ancora prima, il giorno che aveva scelto come nuovo cognome Maldoror, dal terzo canto del poema di Lautréamont, l’autore maledetto amato dai surrealisti, a dire di un cinema che rovesciava lingua, senso, sintassi, significati, grammatica, tradizioni per rinascere meticcio tra prosa, poesia, fantastico, documentario, visivo, sonoro. «In Africa non si può avere la stessa concezione europea del tempo, della luce, del suono. Il rumore africano non esiste da nessuna altra parte, dobbiamo rispettarlo».

E QUESTA sarà la sfida della sua opera in circa una quarantina di film, dal cortometraggio che è un canto di lotta, Monangambée, girato a Algeri nel 1969, in cui racconta la tortura utilizzata con ferocia dall’esercito portoghese contro i militanti per la liberazione dell’Angola nella vicenda di un prigioniero al quale la compagna fa visita in carcere, e per un «malinteso» linguistico – l’abissale distanza tra colonizzati e colonizzatori – viene massacrato dai soldati.

Sarah Maldoror era nata Sarah Ducados nel 1929 a Condom,in Francia, madre francese e padre della Guadalupe, da ragazza si sposta a Parigi dove frequenta l’Accademia di teatro di rue Blanche. Lì incontra il futuro regista ivoriano Timité Bassori, insieme nel 1956 fondano la compagnia Les Griots, di cui fanno parte anche Toto Bissainthe, Ababacar Samb Makharam, Robert Liensol; è il primo gruppo francese di attori africani e afro-caraibici, in scena portano Jean Genet (I Negri) e Aimé Césaire (La Tragédie du roi Christophe), tra i loro sostenitori c’è Alioune Diop, che nel 1947 aveva creato la rivista «Présence africaine», una delle voci chiave contro i colonialismi.

Nel 1961 Sarah lascia la Francia destinazione Unione sovietica, sono gli anni delle guerre di liberazione e di indipendenza dei Paesi colonizzati, lei ha capito subito che il cinema può essere uno strumento fondamentale nella decolonizzazione del pensiero del continente visto il tasso altissimo di analfabetismo, e col suo compagno, il poeta e scrittore Mario Pinto de Andrade , fondatore dell’Mpla – il Movimento di liberazione dell’Angola – raggiunge le lotte in un lungo periodo di esilio militante.

Nel 1966 la troviamo a Algeri, assistente alla regia di Pontecorvo per La battaglia di Algeri, e poi di William Klein in Festival panafricain d’Alger (1969). Nel 1970 gira in Guinea Bissau il suo primo e «invisibile» lungometraggio, Des fusils pour Banta, la vita e la morte di Awa, una contadina militante del Paigc, il Partito per l’indipendenza di Guinea e Capo Verde, che si mescola alle immagini quotidiane dell’impegno nella battaglia di donne a ragazzini. A finanziarlo era stato l’esercito di liberazione algerino pensando di utilizzarlo come propaganda, Maldoror però si era opposta al controllo rivendicando la propria autonomia al montaggio, così il materiale era stato sequestrato e mai recuperato fino a oggi – sono rimaste soltanto le fotografie di Suzanne Lipisnka realizzate durante le riprese insieme ai ricordi e agli appunti della regista.

 

Il successivo Sambizanga (1972) diventa dunque il suo esordio, film d’amore e di guerra, da un romanzo dello scrittore angolano José Luandino Vieira, La vraie vie de Domingos Xavier – adattato da Pinto de Andrade insieme Maurice Pons – è anche il primo film di una regista africana e del cinema angolano e della sua storia. Girato in Congo Brazzaville con attori non professionisti – e militanti impegnati ne conflitto – si svolge nel 1961, agli inizi della guerra di liberazione dell’Angola – dove rimase invisibile fino all’indipendenza – e nella figura della protagonista, Maria, mostra la repressione contro il Movimento di liberazione. Il marito della donna, attivista politico, è stato portato via dai militari portoghesi, preferisce morire piuttosto che parlare, intanto lei, col bambino sulle spalle, lo cerca ovunque. Attraversa il paese da un villaggio all’altro scoprendo una nuova consapevolezza che sarà quella collettiva, una possibile libertà, la solidarietà con altre donne, un mondo fino allora sconosciuto.

IL FILM venne attaccato da più parti con la critica di essere troppo romanzesco o sentimentale. Replicava Maldoror: «Mi hanno accusato di aver fatto un film hollywoodiano, ma non è vero. Ho solo voluto evitare ogni miserabilismo e ho mostrato un popolo angolano cosciente del proprio diritto alla libertà».

Quando lascia l’Algeria – sembra per gli scontri sempre più duri con l’Fnl, il Fronte di liberazione nazionale al governo – torna in Francia, a Saint-Denis, continua a fare film, documentari tra Capoverde la Guinea, la Francia, ritratti di artisti – come quello dedicato a Léon Gontran Damas, sulla memoria caraibica, le estetiche, la militanza, a Aimé Césaire, Assia Djebar, René Depestre, Louis Aragon, Toto Bissainthe, Archie Shepp – e a schierarsi contro l’intolleranza e i pregiudizi – Un dessert pour Costance (1981) narra le esistenze dei lavoratori africani emigrati – mantenendo ferma la a sua convinzione – meravigliosa utopia – che il cinema può cambiare il mondo. Combattiva fino all’ultimo, con lo sguardo fermo sotto la chioma bianca. Come diceva di lei Aimé Cesaire nelle parole che le aveva dedicato – e che le figlie hanno pubblicato nell’annuncio della sua morte: «A Sarah Maldo’ che con la macchina da presa in mano lottava contro l’oppressione, l’alienazione, e sfidava la stupidità umana».