Al Senato la strada della riforma Rai è in salita. Oggi, finita la discussione generale, si dovrebbe passare al voto. Gli emendamenti si contano a centinaia, firmati quasi tutti dalla Lega (che ne ha presentati 800) e dal M5S che ne firma 635. Fi, a cui la riforma va in realtà benone, anche se forse voterà contro, ne ha portati 101. Sel, pure molto critica, solo 45 ma tutti di merito, per evitare l’accusa – sempre pronta – di ostruzionismo.

Sulla carta, la trattativa non sarebbe impossibile: i pentastellati chiedono modifiche sull’elezione del cda, per garantire l’indipendenza dei consiglieri dal potere politico; in cambio offrono il ritiro della maggior parte degli emendamenti, la fine dell’ostruzionismo. Gasparri, che da solo ha portato 80 degli emendamenti azzurri, vuole «un più equilibrato rapporto tra cda e amministratore delegato, perché il servizio pubblico non può essere subordinato al controllo del governo. Insisteremo perché rimanga la centralità del cda». In questo caso la posta in gioco non sarebbe l’ostruzionismo, a cui Fi non partecipa, ma il voto a favore.

In realtà, alla truppa di Arcore la riforma, tutto sommato, va benissimo, e il perché lo hanno spiegato nel dettaglio, in una conferenza stampa al Senato, il segretario della Fnsi Raffele Lorusso, il segretario dell’Usigrai Vittorio Di Trapani, Vincenzo Vita, a nome di Art. 21, la presidente del gruppo Misto-Sel Loredana De Petris e il senatore Pd, nonché ex direttore di Rainews 24, Corradino Mineo.

La legge hanno ripetuto tutti, ha in realtà due aspetti: da un lato comporta una secca svolta autoritaria e, come afferma Vita, «riporta la situazione a quella che era prima della riforma del 1975, quando il servizio pubblico era direttamente controllato dal governo»; dall’altro è figlia dell’ultimo ventennio, si tratta cioè di una legge consociativa che registra ancora una volta la spartizione tra Pd e Fi, e garantisce a Mediaset la conservazione della posizione preminente di cui gode.

Nulla sul conflitto di interessi. Norme elettive sul presidente e sui direttori delle testate che sembrano fatte apposta per assicurare al partito di Renzi e a quello di Berlusconi una serena spartizione delle poltrone e delle sfere di influenza.

In realtà, la riforma Rai è probabilmente l’emblema più eloquente del renzismo, e per diversi motivi. Prima di tutto per lo scarto abissale tra le promesse fragorose e l’effettiva messa in opera.

Nella girandola di annunci, come hanno ricordato i segretari della Fnsi e dell’Usigrai, il premier aveva annunciato un terremoto: la liberazione di viale Mazzini dalla presa soffocante dei partiti e la cancellazione della legge Gasparri, che a tutt’oggi regola il servizio pubblico. In concreto, dei 47 articoli che compongono la legge dettata da Mediaset, 46 resteranno identici. L’epocale trasformazione si riduce alla modifica di un solo articolo: quello sulla governance . Da questo punto di vista, la svolta di Renzi viaggia sicura verso lo slittamento del controllo sul servizio pubblico dai partiti al governo.

L’ad somiglia in effetti alla figura del direttore generale modello Gasparri, ma con notevoli poteri in più. Soprattutto, dovrà rispondere solo ed esclusivamente al governo: non solo in virtù della riforma in questione, ma anche dell’Italicum, come ha ricordato Loredana De Petris. Con la nuova legge elettorale e con il premio di maggioranza che assegna al partito vincente, dunque a quello del premier, il governo indicherà due terzi del cda e l’ad. Il quale, non a caso, sarà l’unica figura la cui nomina non avrà bisogno di un adeguato curriculum a sostegno.

Il problema sta in quel che nella legge non c’è, forse ancora più che in quel che invece c’è. Nessuno sforzo di adeguare le strategie alla rivoluzione subita dal sistema dei media e della comunicazione negli ultimi decenni. Nessun tentativo di definire quali siano oggi il compito e la funzione del servizio pubblico.

Nessun intervento serio sulle risorse, il che, profetizza Mineo, si tradurrà sin troppo presto in una ondata di esuberi. La riforma, insiste l’ex direttore di Rainews 24 , è pensata per un duopolio, quello degli ultimi decenni: ma il duopolio non c’è più e con questa riforma la Rai rischia di essere immensamente penalizzata dallo scontro Sky-Mediaset: il nuovo e vero duopolio.

L’Italia non è il solo Paese europeo, ricorda Di Trapani, in cui il servizio pubblico sia sotto assedio: è così un po’ ovunque, dalla gloriosa Bbc alla Francia. La differenza è che lì, almeno, ci provano a ripensare il servizio pubblico, senza limitarsi alla individuazione di un proconsole del governo. Da noi no. Per questo, conclude il segretario dell’Usigrai, a dispetto degli slogan di Renzi: «Non è la volta buona. Non è la svolta buona».