Barack Obama prepara la sua uscita di scena con l’atteggiamento e il tono di chi avverte che, lui, sulla scena, ci resterà ancora per un po’.

Le sue due ultime iniziative – l’astensione all’Onu su una mozione di condanna delle colonie israeliane e l’intervista senza veli col suo più fidato collaboratore, oggi commentatore tv, David Axelrod – costituiscono atti pienamente politici. Non sono tesi semplicemente a «pilotare» nel senso a lui più congeniale il racconto della sua presidenza nella fase finale, a consolidare la legacy che politologi e storici potranno analizzare studiando i carte della sua amministrazione custodite nella futura biblioteca presidenziale Barack H. Obama a Chicago. Così han fatto tutti i presidenti, ma Obama va molto oltre.

Obama utilizzerà anche l’ultimo giorno del suo mandato per fare politica da presidente. D’altra parte, una transizione nella quale il president-elect annuncia decisioni cruciali prima ancora di entrare in carica, commenta e contraddice pubblicamente quelle di chi è ancora in carica, autorizza a immaginare anche in chiave molto diversa rispetto al passato quel che succede e quel che succederà, con l’insediamento di una presidenza «senza copione», come quella che si preannuncia.

Le due mosse di Obama servono dunque soprattutto a preparare il terreno per la sua attività futura, ancora troppo giovane per ritirarsi o trovarsi relegato a compiti di carattere umanitario o diplomatico affidati tipicamente agli ex-presidenti. Farà anche quello ma molto altro, come mai nessun predecessore, neppure Bill Clinton, che doveva lasciare spazio a Hillary.
Intanto, l’astensione all’Onu, sebbene tardiva e passibile di essere cancellata dal suo successore, è la rivendicazione di una visione della vicenda mediorientale che ha contraddistinto – anche se in modo molto debole e contradditorio – la sua presidenza ma che è comunque opposta a quella che prefigura Trump in alleanza con Netanyahu, tesa a cancellare ogni forma di futuro per il popolo palestinese. Con effetti dirompenti sul quadrante mediorientale, in una crisi che non ha ancora toccato il fondo.

Su questo terreno, che si profila come il principale terreno di tensioni e conflitti nella politica estera di Trump, Obama continuerà a far sentire la sua voce. Una voce che assumerà paradossalmente ancora più forza di quanta ne potesse avere da presidente, più libero ora da vincoli e condizionamenti.

Questa è la ragione della reazione di Bibi, hysterical come l’ha definita Tzipi Livni. Netanyahu sa bene che non si toglierà di torno Obama, il prossimo 20 gennaio, l’Inauguration Day di Trump, anzi si potrebbe trovare un avversario ancora più insidioso a Washington.

La politica muscolare del duo Trump-Netanyahu, che il nuovo ambasciatore americano David Friedman applicherà con zelo, offrirà altre occasioni a Obama per incidere sulle contraddizioni evidenti che lacerano Israele e il mondo ebraico, in particolare quello statunitense. Il voto al consiglio di sicurezza preannuncia questo.

Negli Usa tre quarti degli elettori ebrei sono saldamente democratici, continuano ad avere un alto apprezzamento di Obama, che hanno sostenuto in due elezioni, e vivono male il tentativo da parte dei «falchi», in America e in Israele, di usare il tema della «sicurezza» dello stato ebraico in chiave ultimativa e ricattatoria nei confronti di chi considera la trattativa e la creazione di due stati l’unica strada anche per la tutela d’Israele stessa.

Non sarà dunque Hillary a guidare l’opposizione a Trump, come sarebbe accaduto se non fosse stata travolta una seconda volta, né un Partito democratico di obbedienza clintoniana, ma lo stesso presidente uscente, con forme e modi inediti, che influenzeranno il mondo dem. Quando Obama dice ad Axelrod che, avesse corso lui, avrebbe vinto contro Trump, non dimostra grande eleganza nei confronti di Clinton, ma intende affermare energicamente che la sconfitta di Hillary non è la sua, non equivale al ripudio dei suoi otto anni di presidenza, come si tende a far credere da parte trumpista, e non solo.

Lui, il suo doppio mandato, lo considera un successo da difendere, e da portare avanti. Certo, quella sconfitta è anche la sua, per tante ragioni, non ultima proprio quella che oggi più lo spinge a restare in campo, e cioè la rifondazione del Partito democratico, oggi dettata dalle conseguenze di una vittoria annunciata e mancata e dall’avvento di un nemico come Trump, ma che sarebbe stata necessaria sull’onda soprattutto della sua prima vittoria presidenziale, quando tutto quello che diceva e faceva sembrava magico. E invece del Partito democratico se ne infischiò, lo lasciò ai clintoniani che l’avrebbero usato per il loro inutile tentativo di rivincita. Ora, l’Obama tornato alla politica proverà a fare quel che non ha fatto finora nella convinzione – ha detto Axlerod, commentando la conversazione con il suo ex-capo – che «la sua visione progressista, la visione che l’ha guidato, sia ancora la visione della maggioranza» americana.