Per dirla con Ivano Fossati, sarà la musica che gira intorno ad aver fatto di Federico Sacchi, per tredici anni, un mercante di dischi tra un negozio di Asti e la Fnac di Torino, e da due decenni un cantore lirico di madrigali. Trentasette gli anni anagrafici di colui che si definisce, suo il neologismo, Music Teller, cioè narratore di musica. Sarà la musica che gira intorno ad avergli fatto stipare in casa novemila dischi e un numero imprecisato di memorabilia, foto, documenti, riviste, libri. Dentro la musica che gira intorno, Federico ha cominciato un giorno a scavare, cercando nomi slavati dal tempo, confinati nel ricordo vago dalla lontananza dei luoghi, sconosciuti quando erano «altro» fuori dal solco di una Hit a trentatre o quarantacinque giri.

Music Teller migrante, Sacchi ha scelto di raccontare l’America a stelle e strisce di mezzo secolo fa, quella della segregazione razziale e delle rivolte afroamericane a Detroit, dell’assassinio di John Kennedy e di Martin Luther King; delle major discografiche bianche e della Motown, unica etichetta al cento per cento nera; di Mahalia Jackson e di Aretha Franklin, di Gil Scott Heron e di Stevie Wonder. La musica dentro se stessa e dentro la storia, trasformata in due spettacoli, esperienze di ascolto, come Federico le definisce: Hidden Roots: Gil Scott Heron e le radici dell’Hip Hop, e Wonderful Vision, il sogno di Martin Luther King secondo Steve Wonder, entrambi andati in scena negli spazi del Circolo dei Lettori di Torino.

La differenza di titoli e temi non tragga in inganno, come il fatto che unico sia l’episodio di Hidden Root e tre quelli di Wonderful Vision. Esiste, invece, una precisa connessione, esplicitata dai rimandi, dal succedersi degli eventi; dal ruolo dei personaggi che entrano in gioco, ne escono e poi tornano. Sacchi se ne sta solitario in scena davanti a un leggio. Su uno schermo alle sue spalle compaiono immagini urbane, ritratti di uomini e donne, fogli di lettere, cover di dischi, interni di studi di registrazione, manifestazioni assediate dalla polizia e dai lacrimogeni. Le casse acustiche ai lati del palco diffondono brani i cui titoli sono cimeli e brani che hanno scalato le classifiche mondiali, la voce di un oratore durante un comizio e le voci della folla. Il narratore delle esperienze di ascolto fa scorrere gli anni e gli eventi come se fossero rivoli d’acqua, ne devia ma solo in apparenza il corso, ne fa crescere la portata, li conduce ad alimentare il fiume che sfocia in un finale dove tutto si compie e si tiene.

Il linguaggio è privo di orpelli specialistici, il racconto unisce profondità a semplicità, l’emozione trova spazio accanto a un’ironia di cui sono artefici a volte i personaggi stessi chiamati in causa. Sacchi non vuole insegnare, ma condividere e comunicare agli altri ciò che ha imparato e scoperto. E lo fa miscelando, sovrapponendo, la musica al contesto sociale e politico. «Le mie esperienze di ascolto – spiega – non nascono da una personale ossessione rispetto un artista. Quello che ho colto e che mi ha portato a Wonderful Vision è un filo rosso che si è creato partendo dal primo spettacolo, scritto nel 2013, Donny Hathaway, ritratto di un genio interrotto. Hathaway è stato un gigante della composizione e della voce dai ’60 ai primi ’70, schiavo di una schizofrenia che lo fece uscire di scena per cinque anni. Al suo rientro scrisse una canzone per Roberta Flack, ma la malattia vinse, portandolo al suicidio. L’ultimo brano, Donny lo firmò per Stevie Wonder, che plasmerà la sua carriera ‘adulta’ proprio sulla vocalità e le invenzioni di Hathaway».

Da lì il filo rosso si allunga: «Lo scorso anno il Circolo dei Lettori mi chiese un lavoro all’interno di una tre giorni, Rap, il potere alla parola. Proposi la figura di Gil Scott Heron, grande intellettuale, musicista e poeta afroamericano, in Italia uno sconosciuto. Nel 2015 erano trascorsi 45 anni dal suo primo disco, Small Talk at 125th & Lenox Ave, basato soltanto su voci e percussioni e considerato il seme dell’hip pop. Gil è l’apparato radicale da cui il movimento dell’hip pop è nato. Nel corso di vent’anni aveva scritto un libro, L’ultima vacanza. A memoir, pubblicato in Italia da LiberAria. Fin dalle pagine iniziali emerge che Scott Heron non lo ha scritto per parlare di sé. Si ritrova a farlo, ma per tributare a Stevie Wonder il merito di aver lottato e preso posizione in nome del Martin Luther King Day, unica festa federale dedicata a un afroamericano.

Quel libro è stata la molla di propulsione del mio spettacolo, tutto giocato sulle radici, sulle piante, sulla crescita di un’idea».
Wonderful Vision, adesso. Che direzione ha dato al filo rosso? «Ho messo in relazione due uomini di pace e due grandi sogni. Nel momento in cui politica e musica combaciano, succedono cose straordinarie. Prendiamo il famoso discorso su I have a dream, pronunciato da King il 28 agosto del 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington. Lui sta parlando, ma con il trascorrere dei minuti si avverte un calo di attenzione nella folla. A poca distanza c’è Mahalia Jackson, la più grande interprete di gospel del secolo scorso. Da donna di spettacolo capisce il momento e grida ‘Racconta del sogno, Martin. Racconta del sogno!’.

Pochi giorni prima, nella chiesa del padre di Aretha Franklin, King aveva tenuto un sermone, parlando, appunto, del sogno. Lui, allora, mette da parte i fogli e improvvisa. La sintesi del sogno di Wonder è nel manifesto dello spettacolo, elaborazione della copertina di Songs in the key of life, 1976. L’immagine di Stevie al centro del sole è sostituita da quella di King, che guarda verso destra. Sotto ci sono tre ritratti del musicista, corrispondenti a ciascuno degli episodi in cui è diviso Wonderful Vision. Il primo è frontale. Stevie ‘sente’ sopra di lui Martin, crede nei diritti civili, ma ha bisogno di emanciparsi dal punto di vista artistico.

Nel secondo accenna a voltarsi, perché inizia ad avere una sua visione di King. Nel terzo, guarda anche lui verso destra».
Il ritratto dell’America di quei tempi è di un paese in guerra, che ha Nixon e poi Reagan alla presidenza ed è ancora profondamente razzista. «Proprio in questo contesto va intesa la vittoria del Martin Luther King Day, cercata per lunghi anni da Wonder. Una vittoria di grande valenza simbolica, che è riuscita a far passare un messaggio fondamentale: bisogna celebrare gli uomini di pace. Anche in questo, Steve è stato un genio rivoluzionario». Gira la musica intorno a Federico Sacchi Music Teller. E continuerà a girare per molto tempo ancora.