Sara Garagnani, una biografia tradotta dal sé
Intervista L'autrice racconta il suo primo graphic novel da autrice unica: «MOR storia per le mie madri»da Add editore
Intervista L'autrice racconta il suo primo graphic novel da autrice unica: «MOR storia per le mie madri»da Add editore
«Mor» è la parola svedese che significa madre ed è il titolo del primo graphic novel che Sara Garagnani firma da autrice unica. Combinata con sé stessa, la parola acquista il significato di nonna (mormor) e poi di bisnonna. Il suo libro, che racconta della propria relazione filiale con la madre Annette, svedese, e quella di quest’ultima con la propria madre, Inger, riflette le possibilità e le caratteristiche di questa piccola parola combinabile, raccontando della linea matriarcale della sua famiglia e di come certe dinamiche e comportamenti domestici si ripetano e riaffiorino attraverso le generazioni. Al Passaggi Festival di Fano qualche giorno fa ne abbiamo parlato con l’autrice, ospite domani del festival Bande de femmes alla libreria Tuba di Roma.
«MOR storia per le mie madri» (add editore) può essere letto come un’autobiografia e come la biografia di tua madre, ma in entrambe le parti scegli la prima persona. Perché?
L’elemento biografico e quello autobiografico si compongono in questo lavoro; mettendo al centro il personaggio di Annette, leggiamo una biografia, altrimenti è la mia autobiografia. C’è da dire che il carattere corale dà alla storia un personaggio principale che la rende sia auto che biografia; l’io narrante è un’unica voce che lega questa vicenda transgenerazionale. Per la storia di mia madre ho raccolto dei racconti che ho elaborato e sceneggiato attraverso il mio vissuto. Volevo che l’io narrante fosse mantenuto; se avessi usato la terza persona avrei avuto la storia di mia madre e non per mia madre.
Infatti come spieghi nell’esergo questo è il tuo canto per le tue madri, una storia molto dolorosa, annunciata nella prima sequenza dove una ferita squarcia il cielo svedese. È una fessura tra gli eventi e l’atto del narrare, una distanza che hai riempito con parti fittizie?
I racconti di mia madre erano molto asciutti, mai troppo lamentosi né rabbiosi, non trapelava troppa emotività nel racconto del suo vissuto. Ho scelto degli eventi che mi sono rimasti impressi e li ho calati in un paesaggio casalingo, con una temperatura che ho immaginato, avendo ricevuto da bambina racconti che erano a loro volta ricordi di mia madre.
La parte dell’infanzia di tua madre e della tua adolescenza sono molto dure, la prima segnata dal dolore di una figlia non amata, la seconda dall’impossibilità di amare la propria madre. «Mor» è una storia sulla difficoltà e la complessità dell’amore materno e filiale e su come questo possa essere violento e avere ripercussioni serissime e durature. Come si affronta un romanzo come questo? C’è un aspetto terapeutico nella tua decisione di scrivere, disegnare e pubblicare la tua esperienza?
È un libro che volevo fare da molto tempo, ma sono riuscita a dire e a disegnare quando ho potuto finalmente vedere. Il processo non è stato né terapeutico né di scoperta, non sarei riuscita a costruire la storia se i pezzi fossero stati incontrati strada facendo; sicuramente la scrittura e il disegno mi hanno fatto incontrare certe immagini che hanno oliato il mio rapporto con questa storia e che mi hanno permesso di essere più precisa.
Certe emozioni sono molto ingombranti nel libro, penso al magone di Annette e di suo fratello che non capiscono la rabbia e la violenza della madre Inger, che poi si trasforma in trauma nel momento in cui Annette è grande.
All’inizio è un buco nella pancia dei ragazzini, una sensazione di paura mista ad angoscia che si presenta come un vuoto, un buco; nel corso del libro assume diverse dimensioni…è liquido, solido, gassoso, ha molteplici consistenze. Quindi non è il contenitore di una sola emozione, ma è mutevole e spesso disegnato in modo diverso. Un personaggio che si materializza anche attraverso un grido di Annette che lo sputa fuori mentre si sfoga, riesce a incontrarlo e a vederlo in un momento paradossale di risposta a tutto il silenzio e alla incomunicabilità dei rapporti domestici.
La tua è una storia matrilineare, nella quale i personaggi maschili sono secondari e quasi mai positivi-fatta eccezione per la figura di tuo padre, Agostino.
Capita che risalendo la mia linea materna io trovi questo pattern di comportamento che si ripete di generazione in generazione, così come l’assenza della parte maschile, ugualmente importante nelle famiglie; un maschile che sembra non accorgersi di quel che succede e che quindi non se ne occupa, che vive situazioni di violenza psicologica come se non stessero accadendo. Questo apre moltissimi temi, anche scissi dalla mia storia, e ho pensato che non a caso spesso nelle famiglie, la componente maschile non è quella competente sulla grammatica dei sentimenti. Di fronte a un materno che in conseguenza di traumi propri agisce in modo violento e ripropone la stessa violenza di cui è stato vittima, il maschile non sembra accorgersene.
Nel libro la madre di Annette, incapace di sentimenti materni, prova a sfuggire al proprio disagio spostandosi con i figli e cambiando paese. L’altrove è inteso come luogo altro da quello delle attenzioni e della cura di cui i figli avrebbero bisogno, ma anche spazio simbolico dell’incomunicabilità.
Io lo sento un libro più di domande che di risposte. Ho cercato attraverso il segno e la parola di aprire dei varchi e delle possibilità, senza fissarle nei loro contorni: non potevo maneggiare in termini definitivi il tema del rapporto con la madre e con la vita, anche se ho scelto di raccontarlo con una storia. Mi sembrava più rispettoso non dare contorni fissi, il linguaggio artistico a volte riesce a trasmettere in senso simbolico e non definitivo, volevo tenere aperti i collegamenti e continuare a far parlare questi contenuti.
Quando il trauma raggiunge Annette, tu sei una bambina. A quel punto la composizione della pagina cambia completamente e organizzi le sequenze in vignette regolari e piccole, alcune occupate solo dal buio, dal nero. Puoi spiegarci questa scelta?
Siamo poco dopo l’inizio della seconda parte, quindi nel momento del racconto della mia infanzia. Questo è il punto di vista di me piccola, un momento difficile del mio vissuto. I bui sono punti interrogativi, accadimenti ai quali non riuscivo a dare un senso e quindi non disegnarli mi è sembrato il modo più eloquente per raccontare questa mancanza. Ho riconsegnato in nero ciò che allora non riuscivo a codificare.
Ci sono «cose non dette», che gli adulti non esternano ai bambini, tagliandoli fuori dalle loro emozioni e costringendoli a un’esperienza traumatica delle stesse, quando queste emergono.
Credo che qualunque cosa possa essere violenta: la parola detta o quella non detta. Credo che nel mio caso siano stati diversi gli strumenti con i quali si è esercitata una violenza del tutto inconsapevole. Il silenzio può essere ricattatorio, soprattutto nelle relazioni tra genitori e figli piccoli.
Ti sei occupata di violenza di genere in «Via del Gambero77» firmato con Camilla de Concini per il 25esimo anniversario della Casa delle donne contro la violenza di Modena e in «Mor» hai scelto una rappresentazione simbolica e astratta di un abuso sessuale. Ci sono elementi dei quali bisogna rifuggire quando si rappresenta la violenza?
Tutto il libro è elastico: non una cronaca, ma la rappresentazione di come ricordiamo le cose, di parti di un’esperienza vissuta che ci ha colpito talmente tanto che rimane più esplosa e visibile. La cronaca dei fatti non era il mio obiettivo; ho utilizzato racconti che ho rispettato, per parlare di come emotivamente reagiamo alle cose, di come abbiamo difficoltà a chiedere aiuto, o ci sentiamo giudicati dal mondo fuori, o di cosa succede se lo stesso mondo non si accorge di cosa sta accadendo. Rappresentare la violenza psicologica è difficile ma merita di essere affrontata perché, oltre che molto diffusa, è fatta di meccanismi subdoli per cui è difficile da riconoscere e da esser denunciata.
Mi piace moltissimo la copertina con questo universo che racchiude gli elementi della vostra storia con un’estetica nordica…
Ho scoperto di avere una quadrisavola lappone, e ho indagato. I lapponi si organizzano in comunità nomadi nelle quali esiste una figura di sciamano che ha il compito di realizzare e tutelare il benessere della comunità sotto i tre aspetti fondamentali: fisico, psichico e spirituale. Per far questo, lo sciamano usa un tamburo e la voce; il tamburo è decorato con simboli codificati e non, e viene decorato pian piano con immagini raffiguranti la vita della comunità in termini di bisogni, divenendo un archivio della comunità. Alla fine del libro mi sono immaginata una scena paradossale in cui io, mia madre e le altre figure femminili della storia, abbiamo contemporaneamente 7 anni. Vedersi tutte bambine contemporaneamente ha definitivamente azzerato le responsabilità di ognuna di loro e mi ha fatto capire che avrei potuto disegnare il nostro tamburo sulla copertina.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento