All’inizio del nuovo secolo, Ricardo Piglia tenne a La Habana una conferenza, poi pubblicata dalla rivista «Casas de las Américas», che sin dal titolo, «Tre proposte per il prossimo millennio (e cinque difficoltà)» si presenta come una sorta di dialogo con le Lezioni americane di Italo Calvino e le Cinque difficoltà per chi scrive la verità di Bertold Brecht: in quelle pagine lo scrittore e critico argentino si interrogava sul futuro della letteratura (o sulla letteratura del futuro), dal punto di vista di un intellettuale radicato «in una periferia del mondo (…). Il paese di Sarmiento, di Borges, di Cortázar, di Sara Gallardo, di Manuel Puig».

Nel breve elenco di nomi spicca, a sorpresa, quello di una scrittrice scomparsa prematuramente alla fine degli anni Ottanta, sconosciuta fuori dall’Argentina e dimenticata anche in patria, e che tuttavia Piglia giudicava imprescindibile, tanto da riproporla in una celebre collana di classici argentini da lui diretta. Aveva così inizio, dopo una cancellazione tanto radicale quanto rapida e inspiegabile, la riscoperta di Sara Gallardo, che si è andata articolando tra le riedizioni di cinque romanzi e di uno splendido libro di racconti, la compilazione di due nuove antologie di testi tratti da una trentennale produzione giornalistica, una diversa attenzione della critica e, infine, un certo numero di traduzioni in altre lingue, cui si aggiunge oggi quella di Bruno Arpaia per l’editore Solferino, che sta per pubblicare Gennaio (pp.144, € 15,00), opera prima apparsa nel 1958, quando l’autrice aveva ventisette anni.

Gennaio narra di una gravidanza non voluta, «un fungo nero» annidato nel corpo gracile e quasi infantile di Nefer, sedicenne che, stuprata da un ubriaco durante una festa campestre, si scopre incinta ed è paralizzata dalla vergogna, dalla paura e dalla certezza che nessuno sarà dalla sua parte, tra gli abitanti dell’immensa tenuta in cui lei e la sua famiglia accudiscono il bestiame, soggetti al potere quasi assoluto di una padrona dalla mano di ferro, dispensatrice di buoni consigli e massime morali.

A niente serviranno le dolorose fantasticherie su come estirpare il «nemico» che Nefer si porta dentro, o il suo dibattersi da animale preso al laccio: schiacciata da leggi non scritte, tramandate e imposte dalla madre e dalla Signora, la ragazzina non può che rassegnarsi a un destino stabilito altrove, che la espropria del suo stesso corpo, di ogni possibile desiderio, di una voce per dire di sé.

Nessun cedimento stilistico
Una storia semplice, insomma, situata con precisione nello spazio e nel tempo (la campagna argentina a metà del XX secolo), e connotata da una trama di ingannevole esilità, da un ritmo lento e austero, dall’assenza di enfasi e soprattutto da un’abilissima fusione di voci: la terza persona del narratore si alterna o si intreccia di continuo al monologo interiore di Nefer, spezzato e convulso, e il lettore si rende presto conto che in realtà è il personaggio a esprimersi con la voce del narratore, mentre i frequenti dialoghi provvedono a una polifonia segnata dal ricorso all’oralità popolare.

Nefer, chiusa nella solitudine e nel silenzio come in un’armatura, vaga a cavallo nella pampa (a forza di galoppare, forse, quell’oscuro «fungo» sparirà), spia il ragazzo di cui è inutilmente innamorata, passa da luoghi chiusi e opprimenti (la stamberga familiare e la casa della Signora, la chiesa, la casupola della «strega» che pratica aborti) a un esterno dall’orizzonte irraggiungibile, e intanto Gallardo trasforma paesaggi e ambienti in una sorta di specchio dove si riflettono e prendono forma i pensieri e gli stati d’animo della protagonista.

La narrazione poggia su un linguaggio così sobrio e trattenuto da sembrare in contrasto con la silenziosa disperazione di Nefer, eppure la esprime con estrema lucidità, senza forzature né cedimenti, giocando sul silenzio e il non detto come avviene nella frammentaria rievocazione dello stupro, raccontato per mezzo di dettagli minimi, reticenze e vuoti che ne sottolineano la ferocia. E quietamente feroce, di una violenza sussurrata ma inequivocabile, nonostante il lirismo che Gallardo riserva alle avvolgenti descrizioni della natura e degli animali in cui Nefer cerca un breve conforto, è l’intero romanzo, che in un primo tempo venne erroneamente considerato espressione tardiva del filone ruralista così a lungo presente nella letteratura argentina, da Eugenio Cambaceres a Ricardo Güiraldes, ma divenuto ormai residuale e anacronistico nel periodo in cui Gallardo fece il suo debutto nella narrativa.

A confermare una classificazione così superficiale contribuiva, inoltre, il fatto che l’autrice portasse il peso di un cognome (Gallardo Drago Mitre) che la segnalava come appartenente al patriziato argentino e rimandava a una famiglia illustre, composta da «padri della patria», intellettuali, scienziati celebri, e, ovviamente, proprietari terrieri: l’universo delle estancias Sara Gallardo lo conosceva bene, era anche il suo, prima che un carattere irrequieto la spingesse a intraprendere una vita errante e cosmopolita.

Una narrativa coerente
Ci sono volute nuove e più accorte letture critiche per rendersi conto di quanto fosse discutibile il tentativo di applicare una simile etichetta a un’opera come Gennaio, che, tanto per la proposta estetica come per i contenuti, è non solo inclassificabile, ma pronta a disintegrare stereotipi ancora radicati nell’immaginario e lungamente evocati da un genere che offriva una visione della vita nella pampa gonfia di luoghi comuni e colore locale.

Affrontando temi come l’aborto e la violenza, calandosi interamente nel dolore di un’adolescenza derubata di tutto, e infine rappresentando el campo come un mondo maschile soffocante e claustrofobico, retto da un rigido sistema di caste in cui le donne sono «le serve di tutti» e regna un tempo circolare, che sottolinea l’infinita reiterazione della fatica quotidiana e dell’abuso, Sara Gallardo non si è limitata a mettere in questione la tradizione letteraria nazionale, ma, grazie all’originalità delle sue scelte formali, ha dato brillantemente inizio a un progetto narrativo che si è dispiegato in testi assai diversi l’uno dall’altro, caratterizzati da una sperimentazione di stili e linguaggi sempre più accentuata ed eccentrica, culminante, negli anni Settanta, in testi prodigiosi quali Eisejuaz e El país del humo, dove affiorano innumerevoli brandelli di materiali, voci e immagini recuperati ai margini di vie poco battute e sottoposti a una rielaborazione raffinatissima.

Pur rivelandosi, dunque, come il frutto di un’inclinazione a produrre «pezzi unici» estranei a ogni canone, sin dalla pubblicazione di Gennaio, le opere di Gallardo dimostrano una coerenza di fondo che è proprio Ricardo Piglia a illuminare, quando, al termine della sua conferenza, afferma: «Bisogna creare nel linguaggio un luogo in cui l’altro possa parlare» e lasciarsi abitare da «ciò che dall’altro arriva».