Il piacere della scrittura sta nel creare mondi e andarci a vivere per un po’, assieme ai personaggi che si ritengono più adeguati alla costruzione di una storia. Se poi quei mondi sono stati vissuti realmente, si ha a disposizione una scenografia solida dalla quale partire per imbastire trama e intreccio. Ma non per questo il lavoro si fa più semplice: le insidie della didascalia o le puntute osservazioni del lettore pedante sono sempre in agguato.

IL ROMANZO di Francesca Giommi La figlia del Maharaja. Viaggio in India (Aras Edizioni, pp. 165, euro 15.00) però, le sfugge combinando sapientemente le due componenti per accompagnare il lettore in una dimensione riconoscibile ma dai tratti essenziali, come eliminando il superfluo da ciò che conta davvero nel viaggiare: sorprendersi dei colori cangianti, dei sapori mai provati prima, degli incontri inattesi, coniugando la conoscenza della guida turistica quale è l’autrice con la capacità istintiva di provare lo stupore della scoperta a ogni occasione. Una narrazione condotta sempre sul filo dell’ironia, del disincanto e del sorriso, grazie a personaggi descritti con acume psicologico e la voglia ben riposta di sorprendere, così come accade viaggiando in quell’immenso e multiforme paese che è l’India, nel quale si sperimentano gli estremi delle condizioni umane, proiettato tecnologicamente nel futuro ma ancora preda di retaggi di un passato ancora ben lungi dall’essere superato.

Il progresso ha anzi allungato le distanze fra gli estremi. Tutto questo emerge prepotente nell’opera, non in termini di denuncia o riprovazione, bensì con la leggerezza che è propria di Giommi, già sperimentata nel precedente Il tesoro degli Ashanti. Viaggio in Ghana (Aras 2017), un’avventura condotta pressoché in solitaria segnata dal contatto diretto con la realtà africana. Stavolta invece Beatrice, alter ego dell’autrice, si confronta con un rapporto mediato, alle prese con la necessità di gestire la inevitabile e colorita varietà umana di un viaggio organizzato senza perdere il piacere della meraviglia, accompagnata dal suo omologo locale Raji, guida colta ma fin troppo disinvolta, come quando si tratta di inoltrarsi a piedi nudi sul guano dei topi venerati nel tempio di Karni Mata, senza per questo conquistarsi l’emulazione dei viaggiatori al seguito.

UN CALEIDOSCOPIO di approcci di lettura che fa definire il libro da parte del «turista per caso» Patrizio Roversi nella sua postfazione «un ibrido tra generi, un po’ documentario, un po’ guida turistica, un po’ trattato antropo-filosofico ma anche libera narrazione», e che conduce il lettore in un mondo dai tratti forti e densi, raccontandoli in maniera icastica e palpabile.
Il tutto assemblato in modo omogeneo, come l’impiattata di uno chef capace di dosare gli ingredienti senza che si riesca a distinguerli singolarmente, creando così un gusto nuovo e unico in grado di affascinare e portare con la mente a un’India che alla fine non si vedrà l’ora di visitare davvero.