Il simbolo più evidente della volontà di cambiare, quello sotto gli occhi di tutti, a cominciare dagli occhi dei turisti, è l’enorme parallelepipedo del Mucem, il Musée des Civilisations de l’Europe et de la Méditerranée. Realizzato dall’architetto Rudy Ricciotti, insieme al Centre de conservation e des ressources firmato da Corinne Vezzoni occupa una superficie di ventiseimila metri quadri. La griglia nera che in parte lo avvolge, le immense vetrate che ne delimitano gli spazi, il mare su cui affaccia, la spianata J4 che lo circonda, concorrono a rafforzare il suo ruolo di scenografia spettacolare di Marsiglia 2013 Capitale Europea della Cultura. Ma il Mucem, fisicamente parte dell’area del Vieux Port, è solo una fra le realizzazioni compiute o in fase di completamento all’interno delle tre Zac, le Zones d’Aménagement Concertées (Zone di sviluppo concertate). Le Zac stanno cambiando il volto del centro della città, con il recupero di strutture già esistenti e la costruzione di nuove; la riqualificazione di arterie e zone nevralgiche. Il tutto, 418 gli ettari urbani interessati, è stato avviato nel 1996, grazie ai finanziamenti del progetto Euroméditerranée erogati dall’Unione Europea a dodici Paesi del Mediterraneo, e a quelli di gruppi e istituzioni privati. La Zac Uno, Cité de la Mediterranée, tra Vieux Port e Arenc, comprende, oltre al Mucem e al restaurato Fort San Jean, cui è collegato da una passerella, il Boulevard du Litoral, cioè l’esplanade de la Major, la nuova stazione marittima, le Terrazze del porto, i Dock, l’Euromed-Center, il Silo, i 1500 nuovi alloggi del Parc Habité. La Due, Joliette, tra il porto e il centro di Marsiglia, sarà il quartiere degli affari, con uffici ricavati dalla ristrutturazione di edifici d’epoca e la realizzazione di strutture ex novo. La Tre, Saint-Charles-Porte d’Aix, ha il suo cuore nelle vecchie manifatture di tabacco, a Belle de Mai, in dirittura d’arrivo per diventare un centro culturale di 120mila metri quadri, articolato su tre poli: il primo raggruppa gli archivi municipali, i fondi del Museo di Marsiglia, un centro internazionale di restauro di opere d’arte; il secondo ospita studi televisivi, dove si gira anche la soap opera di nascita marsigliese amata da tutta la Francia, Plus belle la vie, in onda su France 3; infine, il polo dello spettacolo, gestito dall’associazione Système Friche Théâtre e pensato per i professionisti del settore. Tutto questo, Mucem e Fort Saint Jean, a parte, sfugge o si mostra appena, senza suscitare particolare interesse in chi, francese o straniero, approda a Marsiglia cuore culturale d’Europa per un anno. Ulteriore «ombra» la gettano il cartellone degli spettacoli, delle performances, delle mostre, che continuerà a sgranare titoli e nomi fino a gennaio 2014; le installazioni, gli eventi di un giorno o di una notte, i concerti, che si susseguono in un cantiere di avvenimenti rivolti a tutte le tasche e a tutte le fasce di pubblico.
L’ufficio del turismo, sulla Canebière, registra affollamento perenne. Ma intorno a tutto questo c’è una città con due millenni e mezzo di vita alle spalle, le radici affondate nelle civiltà greca e romana, porto di commerci, da sempre approdo di razze e di credo religiosi diversi. Ma intorno a tutto questo, c’è una città offuscata da un marchio di criminalità e malavita, che si ripropone nelle cronache quasi fosse una maledizione impossibile da esorcizzare. Ma intorno a tutto questo c’è una città che, fuori dal suo ruolo temporaneo, manda nuovi segnali, a volte non privi di contraddizioni; mette a rischio o trasforma troppo di fretta una parte del suo passato; esibisce un volto da Giano bifronte quando, appena alle spalle di un’infilata di palazzi della borghesia ottocentesca, rivela una topografia sociale di vie e di case abitate da un popolo fatto di clochard, i barboni, di extracomunitari costretti all’arte di arrangiarsi, di negozi e bar poveri. È la Marsiglia che l’estraneo, francese o straniero, vive, vede, sfiora comunque lungo i suoi percorsi. È la Marsiglia che nessun cambiamento riuscirà davvero a mutare. I passi del suo cammino, da secoli, si muovono su un filo sospeso. Restare in equilibrio è esercizio reso difficilissimo dalla necessità di scrollarsi di dosso una brutta fama e dal contrappeso di un’anima comunque impossibile da rinnegare. Spesso, Marsiglia viene paragonata a Napoli. Sono, però, paragoni superficiali: i panni stesi al vento tra le facciate di due case, lo spirito meridionale della gente, i rifiuti (dramma microscopico rispetto alla capitale campana) ammassati intorno ai cassonetti, la trascuratezza che aleggia. Marsiglia somiglia a Napoli ben più nel profondo. Al pari di Napoli, il sogno della rinascita di Marsiglia cozza contro una realtà che definire complessa non basta, le fiammate di speranza nascono e si spengono, le generazioni di domani cercano di guardare lontano trattenute da ancore incagliate in mezzo agli scogli della distanza non solo fisica con Parigi e altre mecche dell’Europa giovane. Marsiglia, sia detto fuori dal benché minimo disprezzo, anzi, è una città slabbrata fuori e dentro, come Napoli. Ed è proprio questo aggettivo a definirne il fascino e la forza attrattiva, la complessità dei suoi codici di vita, il disordine dei fatti e delle idee in continuo fermento.
Tra il Mucem e il Port Vieux
Nuovo e antico, oggi e, forse, domani. Su questi sentieri occorre andare, seppure guardando dal finestrino privilegiato del passeggero estemporaneo. Partenza obbligata dal Mucem. Del suo indubbio effetto spettacolare si è già detto. Vale la pena annotare che una delle due esposizioni permanenti, La galerie de la Mediterranée, dedicata ai quattro elementi unificanti della Civiltà Mediterranea (invenzione dell’agricoltura, nascita dei monoteismi, cittadinanza e diritti dell’uomo, esplorazioni oltre il mondo conosciuto) sembra aver sofferto di una certa fretta nell’allestimento per arrivare puntuali al 2013. Il percorso è confuso, la qualità dei pezzi lascia non di rado a desiderare; i cartellini esplicativi senza protezione sono, a pochi mesi dall’apertura, semi cancellati dal contatto con mani e fondoschiena del pubblico. Assai più attraente Le temps des loisirs, in parte allestita dentro il Forte San Jean, che racconta arti e tradizioni del Mediterraneo in tema di teatri delle marionette, circo, feste, danze e musiche popolari, seguendo tre percorsi tematici: le età della vita, le feste del calendario, l’invenzione del divertimento. Decisamente di richiamo le mostre temporanee, molte delle quali si esauriranno soltanto a fine autunno e a inizio 2014. Due sono da segnalare in particolare: Le Noir et le Bleu, un rêve méditerranée, dedicato al concetto di civiltà, alla sua evoluzione in chiaroscuro a partire dal diciottesimo secolo e al sogno dell’esotismo attraverso le opere di pittori e scrittori. Au bazar du genre, féminin/masculin en Méditerranée indaga le trasformazioni sociali, culturali, politiche dell’essere donna e uomo nell’area mediterranea. Manichini, manifesti, capi di abbigliamento, ex voto, campionari di anticoncezionali, si alternano a spazi come quello in cui è possibile ascoltare il «dizionario» mondiale degli insulti rivolti alle donne e agli omosessuali. Dal Mucem, il panorama del Vieux Port inchioda lo sguardo. Gli alberi nudi delle barche scompongono l’azzurro del mare e la sagoma del forte gemello di Saint Jean, Saint Nicolas. Notre Dame de la Garde, chiesa per eccellenza di Marsiglia, si prende una piccola porzione di cielo sulle colline rocciose e calve. Lungo il Quai du Port e il Quai de Rive Neuve, a destra e a sinistra guardando l’imboccatura del porto, vent’anni fa, con il buio, ti sconsigliavano caldamente di avventurarti. Questioni di marinai e malviventi, di traffici di puttane e di altre cose nascoste da molte oscurità. Adesso, il Quai du Port è tanto inoffensivo quanto omologato. I ristoranti, le brasseries, i fast food appena più eleganti della norma, sgranano uno dopo l’altro insegne e ombrelloni, menu del giorno e tavolini. I turisti si affastellano, studiano i prezzi, esitano, decidono, si sventolano con una mappa per trovare sollievo al caldo; si accalcano per comprare souvenir alcolici alla Maison du pastis, i Santons (le statuette di Natale di cui la città è inventrice), il sapone famoso in tutto il mondo e i suoi derivati. E allora vale provare una camminata sull’altro Quai.
Le cose vanno meglio. L’atmosfera un po’ dimessa, i bar meno glamour e le rosticcerie alla buona, la presenza di molti marsigliesi suggeriscono che da questa parte del porto si è meno convinti di un cambiamento così radicale. In fondo al cortile di case sbrecciate aprono i loro battenti piccoli teatri off con annessa caffetteria. Puoi farci sosta per mangiare a pranzo in cambio di un conto sotto i dieci euro, o per una cena più spettacolo. Samir, animatore del minuscolo Théâtre Tati, filosofeggia «Quelli dell’altro quai spennano i turisti che lo vogliono. Io do loro da mangiare per far vivere. prima di tutto, il mio teatro. E sono contento così».

Prima i Greci e poi i bordelli
Victor Hugo definì Marsiglia «una città senza monumenti». Salendo dal Quai du Port verso il Panier, ti accorgi passo dopo passo che è proprio così. Con l’eccezione della cinquecentesca Maison Diamantée (Casa dei Diamanti), nome che deriva dalle bugnature della sua facciata, e del coevo Hotel de Cabre (il Palazzo di Giustizia) all’angolo di Rue Bonnetterie con la Grand’Rue, gli altri edifici contano pochi secoli di storia: meno di tre il Padiglione Daviel e l’Hotel Dieu nelle forme architettoniche arrivate a noi, quattro l’Hotel de Ville. Eppure fu qui che alcuni marinai greci fondarono nel 600 a.C. Focea, in omaggio alla città da cui provenivano. Scelsero come luogo di insediamento l’area di una baia che chiamarono Lacydon, dove avviarono le loro attività. La baia era dominata da tre modeste alture, battezzate assai dopo butte Saint Laurent, butte des Moulins e butte des Carmes. Sulle buttes Saint Laurent e des Moulins sorsero un tempio dedicato ad Apollo Pizio e ad Artemide, l’attuale Place de Lenche era l’agorà; nel VI secolo a.C., tre metri più in basso rispetto al livello della Grand’Rue di oggi, correva l’arteria commerciale della città. Le alture accolsero le abitazioni di una Focea in continua espansione. Poche briciole di quel passato, e del successivo dominio romano, sono tornate alla luce. Il resto è sepolto per sempre sotto gli strati di interventi urbani condotti senza alcun rispetto della memoria. David Crackanthorpe, nel suo Marsiglia. Ritratto di una città, afferma: «I marsigliesi hanno sempre ricostruito sulle rovine demolite del passato, conservando poco e spesso incuranti del prestigio architettonico e della storia, come se la loro vitalità fosse troppo grande per aver bisogno di antecedenti». In quella che poi divenne la Città Vecchia vissero a stretto contatto ricchi e poveri fino alla seconda metà del ’600. Data ad allora la prima radicale demolizione, voluta da Luigi XIV. Furono abbattute le mura e creata, ad est, la nuova Marsiglia, con vie e viali disegnati seguendo l’ordine di un progetto. Borghesi e patrizi vi si trasferirono, i plebei rimasero a vivere sempre peggio sulle buttes. In pieno Secondo Impero, un altro colpo di scure arrivò dall’apertura di un collegamento (Rue Imperiale, poi Rue de la République) tra il porto e gli edifici dei nuovi dock. Una fetta della butte des Carmes, nel quartiere battezzato Panier e negli immediati dintorni, venne mutilata, e centinaia di abitazioni rase al suolo, provocando l’esodo forzato di oltre sedicimila persone. L’etimologia del nome Panier rimane incerta: la presenza di una locanda in Rue du Panier, una statua della Madonna con in mano un paniere in cui la gente buttava una moneta, l’insegna di un bordello dove si lasciava il denaro dentro un cesto all’esterno prima della prestazione. Quel che è sicuro, per restare ai bordelli, è che il Panier, a metà dell’800, rappresentava uno dei punti di riferimento consolidati della prostituzione sulla costa mediterranea. E insieme il quartiere della città con il maggior numero di chiese. Affaristi, politici e benpensanti tentarono a più riprese di demolirlo, ma per una ragione o per l’altra, i nefasti progetti rimasero nel cassetto. Ci pensarono Wermacht e SS il 23 gennaio del 1943. Il Panier era considerato un covo di partigiani, di ebrei e di spie, reso inaccessibile dall’intrico e dall’oscurità delle vie; la sua popolazione multietnica e proletaria costituiva un vero e proprio affronto alla purezza della razza ariana. Il bilancio del bombardamento dei quartieri vecchi, durato 17 giorni, si chiuse con seimila arresti, seicento deportazioni senza ritorno, quarantamila sfollati e quattordicimila ettari di rovine nelle vicinanze del porto. Quel che restava del Panier, compreso lo splendido complesso secentesco della Vieille Charité, fu per decenni lasciato a se stesso. Alla storia del Panier e dell’immigrazione italiana e corsa, fatta di uomini e donne che lavoravano al limite estremo della fatica, appartiene anche la mafia di Marsiglia, che negli anni ’20 elesse le buttes a suo nucleo strategico e operativo. Paul Carbone, classe 1894, figlio di analfabeti, arrivò dalla Corsica su una nave di contrabbandieri ed entrò nel clan a passi rapidissimi. François Spirito, classe 1900, scese al porto da Napoli insieme ai genitori, costruendosi in una manciata di anni un’invidiabile carriera criminale. Ma il titolo di re della malavita locale spetta a Gaetan Zampa, nato in una via del Panier nel 1933, da una famiglia di origine napoletana. La sua maturazione professionale avvenne a Parigi; Marsiglia, dal 1964, fu teatro d’azione che lo vide boss di vie nevralgiche per la riscossione delle tangenti, il traffico di droga, la prostituzione. Morì nel 1984, suicida in carcere, mentre attendeva il processo cui non era riuscito a sfuggire. Solo in anni recenti si è compiuta, e in parte è ancora in corso, la riqualificazione del Panier e della Charité. Divide in due la Montée des Accoules, così chiamata per la piccola chiesa del 1100, demolita nel 1794 e poi ricostruita, un mancorrente cui si aggrappano frotte sempre più fitte di stranieri. Il quartiere è incantevole, la sua storia la raccontano cartelli ben collocati, la maggior parte delle case ha recuperato dignità grazie ai restauri e ai colori pastello delle intonacature, le targhe delle vie richiamano mestieri e persone del luogo, la topografia intricata spinge a svoltare ogni angolo nel timore di lasciarsi sfuggire qualcosa. Ma l’aria sta cambiando. Ed è aria di un eccesso di sfruttamento turistico, che rischia di portare il Panier a fare la fine di Trastevere. I locali con déhors nei punti strategici, le gelaterie fuori luogo esteticamente, le boutiques e i negozi di souvenir, stanno oscurando le gallerie d’arte e gli atelier aperti quando il Panier era lontano dall’essere di moda. All’inizio della Montée des Accoules, la birra Cagole ha aperto un suo punto vendita: bottiglie e lattine, accanto a un’infinità di gadget tra bicchieri, vassoi, grembiuli, scatole di latta, targhe, che hanno per soggetto il dipinto di una bruna e provocante cagole (ragazza dal comportamento per così dire spigliato), fasciata in un abitino succinto, sopra di lei la scritta «La bière du cabanon. A boire bien glacée». Frutto di un’idea di marketing ironica e divertente, che gioca con i ricordi dei vecchi bar portuali, la birra sta riscuotendo un notevole successo. Guarda caso da parte dei turisti e non dei marsigliesi, che continuano a preferirle la bionda e corsa Pietra. Altro segnale allarmante è la speculazione edilizia. Per esempio la conversione in stabile residenziale, avviata da un’impresa privata, di uno dei due antichi mulini, superstiti dei quattordici che erano in funzione nella Place des Moulins. Uno degli angoli più belli del Panier. In Place de Lenche, ex agorà, è una fatica passare fra i tavolini dei ristoranti che l’hanno letteralmente sepolta.
Perduta Canebière
Si scende dal Panier per risalire la Canebière, arteria nata dagli interventi di Luigi XIV sulle macerie di un centro di fabbricazione e commercio della canapa. La sua progressiva importanza portò via via ad allungarne il tracciato, fino a superare il chilometro di lunghezza. Dal 700 ai primi decenni del 900, la Canebière, dove nel 1860 aveva aperto la Borsa, fu il cuore del commercio marittimo; il regno dei negozi eleganti, dei caffè alla moda, dei ristoranti e degli hotel d’élite. L’avvento dell’aereo spense in una manciata di anni le ciminiere delle navi, e avviò un declino inarrestabile. La Canebière divenne triste, sordida, pericolosa dopo il tramonto; l’abbandono trasformò in fantasmi le statue ornamentali sulle facciate dei palazzi. Le riqualificazioni avviate a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, hanno prodotto risultati stridenti come i tre edifici di diciotto piani che incombono sul Jardin des Vestiges di Cours Belsunce. Annota Crackanthorpe: «Un tentativo di pulizia, investimento e recupero è ancora in fase iniziale, ed è già chiaro… che non potrà essere che la diffusione di un affarismo popolare più cospicuo e più sgradevole…». Per contro, non pochi palazzi sono stati restaurati, la pavimentazione della strada rifatta, un po’ovunque ci sono cantieri aperti. Quanto ai negozi d’epoca, i pochi sopravvissuti puntano tutto sui turisti. Gli altri esibiscono i marchi globalizzati dello shopping, salvo quello dedicato alle glorie calcistiche dell’Olympique Marseille. Rivivere per un attimo la Canebière sfarzosa e scomparsa è impresa possibile, che si compie al numero civico 53. L’Hotel du Louvre et de la Paix, 250 stanze, due ristoranti e due saloni, è adesso sede dei grandi magazzini di abbigliamento C&A. A sinistra e in fondo al primo ambiente, dietro una porta a spinta, si aprono i due saloni dell’hotel. Gli adesivi incollati agli specchi barocchi, gli appendiabiti, i mucchi di scatoloni, divengono invisibili di fronte allo spettacolo di lampadari, mobili, scaffalature, divani, poltrone, soffitti intarsiati, pavimenti in legno, tappezzerie e damaschi, che si polverizzano giorno dopo giorno. Facile il richiamo all’hotel di Shining. Difficile spiegarsi perché la proprietà dei C&A lasci morire lentamente queste meraviglie, e nessuna pubblica autorità intervenga. Resta da raccontare il popolo di migranti che, della Canebière, è divenuto un tratto distintivo dopo la fine della guerra di Algeria. Al rimpatrio dei coloni seguì una prima ondata di immigrazione nordafricana, cui si è aggiunta e continua ad aggiungersi gente dall’Africa, dall’Asia, dalle Americhe, dall’Est Europa. Sono loro i «veri» abitanti delle vie alle spalle, prima fra tutte Rue des Capucins con il mercato e i negozi che vendono infinite varietà di riso, di spezie per carni e verdure, di scatolame, saponi da Aleppo, riviste rosa d’Oriente. Saladin è segnalato sui depliant dell’Ufficio Turistico, ma al padrone non sembra importare granché. Lui serve tutti allo stesso modo, il turista non merita la precedenza e neppure la fatica di un sorriso ruffiano.
La gente di Cours Ju
Dove sono i giovani; dove si incontrano, creano, parlano di un domani difficile anche a Marsiglia? La risposta è Cours Ju, consueta abbreviazione alla francese di Cours Julien. Sulla Plaine, la parte alta della città, in Place Jean Jaurès, i crociati piantavano i loro accampamenti prima di partire verso Gerusalemme. Al Bar de la plaine piantano ogni giorno le tende i tifosi dell’OM. Cours Ju, cinque minuti scarsi di cammino da Jaurès, fu costruito nel 1785 e gli venne assegnato il nome di Cours de Citoyens. Quartiere BoBo, Borghese e Bohémien, esponente di punta di quel fenomeno urbano chiamato gentrification che attira nuovi residenti da altri quartieri delle città, la porzione più animata e rappresentativa di Julien ha l’aspetto di una piazza, con cipressi e altre specie arboree. Dal tavolo di uno dei tanti locali, lo sguardo scorre sui clienti: coppie dall’abbigliamento e dalle letture gauchistes, ragazzi e ragazze pettinati rasta come le cameriere in servizio, turisti alternativi, pallide marsigliesi e statuari giamaicani in tenere effusioni, studenti che mettono in discussione musica e politica, signore ben pettinate e infervorate nelle chiacchiere davanti a una tazza di tè. Poi lo sguardo si allarga. Al centro della piazza/corso, seduti sui gradini intorno agli specchi d’acqua, clochard, punk a bestia, migranti, si danno quotidiano appuntamento. Appena più in là, passeggiano famiglie precedute da una carrozzina, le donne velate dell’Islam tornano a casa con il carico della spesa, imperversano bambini che corrono dietro un pallone, volano le clave dei giocolieri e le gigantesche bolle di sapone soffiate da un signore dietro libero compenso da parte del pubblico, i dj provano le loro apparecchiature per una notte di note, scoppiano liti verbali e qualche volta fisiche. È un cocktail dai molti ingredienti, Cours Ju. Gli conferiscono colori i murales delle rues Trois Rois, Trois Mages, Fontanges, Vian, Bussy l’indien, Trois frères Barthelemy. Aggiungono sapori i ristoranti di cucine autentiche da Libano, India, Thailandia, Giappone, Caribe, Africa, Corsica. Non è coincidenza che, a questo cocktail, abbia aggiunto il suo ingrediente burlesco e goliardico il designer Philippe Starck, complici i tre fratelli Trigano e Cyril Aouizerate, con l’Hotel Mama Shelter, in Rue de La Loubière 64. Il soggetto della passatoia della hall è una sardina, alla reception gli addetti indossano una t-shirt e una salopette; lo spazio del ristorante inneggia al cibo e al divertimento: scritte ovunque, sopra il bancone una cinquantina di salvagenti – ochetta, l’angolo per i concerti live allestito con una schiera di chitarre e percussioni, il calciobalilla rosa per otto giocatori. In terrazza un bar dedicato al Pastis e un’enorme scacchiera dentro una vasca, dove sfidarsi tenendo i piedi a bagno; nelle stanze, sulla parete di fronte al letto di lenzuola e coperte bianche, un Mac multifunzioni. I prezzi battono la concorrenza. Cours Ju, a fine giornata, quando la luce prepara il suo congedo, è il posto ideale per ripensare Marsiglia alla vigilia della partenza. Forse hai capito poco di lei, forse, anzi di certo, non hai capito quasi nulla. La penna di Jean Claude Izzo serve a consolarti, quando, in Aglio, menta e basilico scrive: «Da qualsiasi luogo tu arrivi, a Marsiglia sei a casa tua. Nelle strade incontri visi familiari, odori familiari. Marsiglia è familiare. Fin dal primo sguardo». Su Marsiglia hai sempre ragione tu, malinconico Jean Claude.