All’indomani delle dimissioni annunciate da Zingaretti – irritualmente, sui social, per denunciare il suo sfogo al più vasto pubblico – i commenti sono tutti concentrati sulla contingenza politica, sul rischio di implosione di un partito che in soli tre anni ha mutato la sua posizione strategica tre volte e di fatto mostrando che, dopo lo schianto delle ultime elezioni, i pezzi erano stati rimessi insieme solo alla meno peggio.

Qualche giorno fa, già Gianni Cuperlo aveva auspicato che il partito finalmente intraprendesse una «sana traversata del deserto» per capire dove andare. Ma, forse, è ora di chiedersi dove ha voluto andare in tutti questi anni ed è il momento questo di chiederlo a tutti i suoi dirigenti – da Walter Veltroni a Massimo D’Alema, da Pier Luigi Bersani a Matteo Renzi – oltre le dichiarazioni di facciata. Di Matteo Renzi, crediamo di sapere: in direzione ostinatamente blairiana.

Veltroni si è dato alle belles lettres, D’Alema e Bersani si sono chiusi nel loro piccolo, per testimonianza. E gli altri? Un gruppo dirigente dopo l’altro ha seguito rovinosamente la conversione liberale già denunciata da Bobbio, come ricordava qualche giorno fa Nadia Urbinati, invece di continuare «a perseguire la giustizia sociale in nome delle classi popolari». Ma, a ben guardare, non è solo «l’esperimento Pd» a non aver funzionato. Forse che tutti gli altri dirigenti e promotori di sigla dopo sigla a sinistra siano meno responsabili del fallimento di un’idea politica? Perché oggi non solo abbiamo uno, due, più partiti in frantumi, ma un intero progetto che mostra la corda.

Nel giorno in cui l’Istat certifica i primi numeri dell’impatto socio-economico devastante della pandemia, vale la pena prestare un occhio al grafico in quel comunicato. Non solo in Italia ci sono 5,6 milioni di poveri «assoluti» (che in termini correnti significa che non hanno abbastanza da vivere, letteralmente), ma sono 16 anni che non fanno che aumentare (soprattutto dal 2011, pur con un calo nel 2019).

Anni in cui, dal 2011, un partito è stato soprattutto al governo, il Pd. 5,6 milioni sono gli elettori che hanno votato Lega alla Camera nel 2018, poco meno di quelli che votarono Pd (6,1). Cinque anni prima, il Pd aveva raccolto 8,6 milioni di voti e Sel quasi 1,1, ma nessuna riflessione venne fatta sul perché all’emergente M5S ne fossero andati 8,7 milioni (e cinque anni dopo, ben due in più).

Il fatto è che, e qui bisogna ripetersi, né il Pd né le altre formazioni di sinistra hanno avviato una seria riflessione su quei risultati elettorali. Fasce enormi dell’elettorato perdute in cerca di risposte altrove. L’Italia disuguale, l’Italia delle povertà, ma anche l’Italia «produttiva», dei milioni di giovani pieni di idee e con poche chances, l’Italia dei molti ha continuato a essere esclusa dall’Italia dei pochi (incluso chi vuole solo «occupare il Palazzo» e gestire il potere). Il problema non è, ovviamente, quello di essere «forza di governo». Un obiettivo legittimo, ma se accompagnato da una prospettiva, un disegno.

Smessi i panni del «partito del movimento operaio», il principale partito che nacque dalle ceneri del Pci volle sposare una logica «riformista» nell’alveo rassicurante della democrazia liberale.  Le sue successive evoluzioni ne hanno fatto una forza politica vieppiù «di sistema», accettandone la curvatura neo-liberista. Preoccupandosi della «crescita», lasciata al mercato, piuttosto che delle disuguaglianze.

I gruppi dirigenti del Pd come degli altri «bonsai» della sinistra non sono mai usciti da una logica elettorale, finalizzata solo alla gestione dell’esistente. È così mancato il richiamo che doveva esserne alla base: le classi popolari ci sono ancora e sono là che reclamano giustizia ed equità. Una società «civile» le cui bandiere, dismesse, vanno sventolate di nuovo, in una prospettiva «progressista».

La sinistra deve riprendere a muoversi nella direzione giusta. Sapere dove guardare, non solo sostenere il governo di turno e gestire l’esistente. Anche perché mai come oggi, con un esistente in frantumi, occorre proporre un disegno di società nuova, ripartendo dai «fondamentali». E se non lo fa una forza di sinistra, le destre populiste sono già pronte a prendersi il compito, ben liete di poter cancellare decenni di «progresso» che ingenuamente diamo per scontato.