Quando si evoca l’Apocalisse tutto diventa lecito. Francis Coppola, per dare un tono di particolare drammaticità all’evento, collocò l’Apocalisse nella giungla del Vietnam, ma senza nascondere che si trattava pur sempre di un episodio della strategia del neo-imperialismo americano nell’era della guerra fredda per tenere sotto controllo l’equilibrio fra i blocchi sul confine della Cina.

I toni appunto «apocalittici», usati ampiamente per descrivere la notte dei fuochi di Parigi, il fanatismo, la barbarie, non possono far passare in secondo piano il contesto reale: la storia, la politica, i rapporti di forza fra gli attori in loco, nella regione e nel mondo.

Seguendo le affannose e mediocri immagini televisive di quel 13 novembre c’era chi si rifiutava di accettare che Parigi potesse essere o diventare come Beirut – veniva in mente Beirut perché la capitale del Libano il giorno prima era stata teatro di un attentato che, con le debite proporzioni fra la popolazione delle due città, aveva provocato un numero di morti dieci volte superiore – ma altri pensavano alle bombe incendiarie su Baghdad, Aleppo o Tripoli di un recente passato.

La rottura più netta che si è prodotta con la guerra che per comodità viene detta fra Occidente e jihadismo, soprattutto in quest’ultima congiuntura, riguarda lo spazio. Da tempo immemorabile le guerre fra Nord e Sud si sono combattute fuori dell’Europa. In Europa non si ricorda a memoria d’uomo o di storia un’invasione in casa propria da parte di un paese terzo non europeo (includendo i turchi). Gli Stati Uniti brillano per una semi-impunità storica, con le due eccezioni, sia pure clamorose, di Pearl Harbour e delle Torri Gemelle, con un intervallo di sessant’anni e in entrambe le occasioni senza nessuna violazione di sovranità sul terreno.

Senza tornare ai tempi del colonialismo, anche le guerre dell’immediato dopo-colonialismo sono state combattute in Africa o in Asia: l’Algeria, il Vietnam, i possedimenti portoghesi. Le guerre si svilupparono per intero in perimetri esterni (a meno di non considerare come fronte «interno» le coscienze dei patrioti che difendevano i «nostri valori» condannando e avversando le scelte dei rispettivi governi). Il contraltare della resistenza dei vietcong in America era il campus delle Università della California. Quando nel 1961 la sezione francese del Fln organizzò una grand manifestazione a Parigi per accelerare la fine della guerra d’Algeria giunta al settimo anno, le forze di polizia francesi soffocarono in poche ore la canaille e il prefetto Papon fece gettare nella Senna i corpi degli arabi senza distinguere bene fra morti, feriti o vivi. Si deve al coraggio di un sindaco socialista di Parigi se da qualche anno una lapide posta sulla spalletta del fiume in fondo a Boulevard St Michel ricorda l’eccidio.

Le guerre coloniali o paracoloniali avevano un progetto istituzionale preciso e identificato: mantenere il potere della madrepatria contro i «ribelli» o difendere un governo amico, magari cambiato più volte anche con mezzi spicci come accadeva a Saigon e in parte a Kabul e più tardi a Baghdad. Le guerre Nord-Sud del post-bipolarismo hanno per lo più un obiettivo destruens: far cadere un regime, provocando un Putsch al suo interno o contrapponendogli un movimento insurrezionale più o meno spontaneo e che per decenza i suoi «padrini» non possono aiutare troppo scopertamente. La scena resta la stessa. Stati Uniti e potenze Nato agiscono fuori dei propri confini e, se ci sono, i contraccolpi interni sono limitati. È avvenuto soprattutto in relazione al contenzioso arabo-israeliano: il Blitz di SEttembre nero alle Olimpiadi di Monaco, attentati isolati a un aeroporto, qualche dirottamento aereo (fra terra e cielo).

Dall’inizio del nuovo secolo quasi tutte le guerre sono concentrate in quello che Bush chiamava il Grande Medio Oriente e che per la diplomazia internazionale è l’area Mena (Middle East North Africa). Una successione iniziata con l’Afghanistan e continuata con l’Iraq. Le cause dei vari conflitti sono molteplici e sarebbe impossibile darne conto qui in modo esauriente. Nel 2011 è intervenuta la scossa delle Primavere arabe, che sembrava destinata a inaugurare una fase di democratizzazione ma che ha finito per determinare una totale destabilizzazione prima del Nord Africa e poi dell’intero Medio Oriente, decretando l’indebolimento e la quasi sparizione dei due stati che ospitano Damasco e Baghdad, le capitali dei Califfati storici.

È in questo sconvolgimento di potestà, frontiere e alleanze, in larga misura provocato più o meno ad arte dall’esterno, che ha preso corpo il cosiddetto Stato islamico fra Iraq e Siria con la duplice funzione di coordinare azioni di terrorismo sulle lunghe distanze e – a differenza di quanto accadeva con al-Qaida – di amministrare un territorio più o meno omogeneo con una popolazione, servizi e una specie di governance.

Invece che esaurirsi essenzialmente nelle dinamiche interne, la politica del regime change ha assunto ormai gli aspetti di una ingerenza diretta (e sconclusionata) della Nato con l’appoggio di alcuni stati arabi (che spesso praticano il più spregiudicato doppio gioco). Con l’impresa imposta agli Stati Uniti (e all’Italia) da Sarkozy e Cameron in Libia tutti i freni sono caduti. Lo sfacelo della Libia dopo Gheddafi è solo l’accidente il più gratuito e doloroso. La catastrofe dell’Egitto, il potenziale pilastro di tutto il sistema, ha aperto un «buco» senza fondo perché – a parte l’ovvio disincanto della Fratellanza musulmana in tutto lo scacchiere (dove non è stata messa fuori legge) – ha reso sempre meno credibile l’alternativa democratico-rappresentativa al posto del ricorso sistematico alla forza. Adesso si cita la Tunisia come success story ma anche a Tunisi i problemi potrebbero non essere finiti (se non altro per contagio dalla Libia).

La «madre di tutte le tragedie» è diventata però dal 2011 la Siria. La sua posizione centrale e le sua natura di mosaico di minoranze la rendono l’obiettivo di tutti gli appetiti. Assad è l’ultimo alleato di Putin in Medio Oriente. Hollande ha creduto di compiere il salto di qualità, probabilmente guardando da una parte agli Usa e dall’altra appunto alla Russia. I risultati di questo protagonismo, fin troppo esibito e vantato, finora sembrano disastrosi per tutti. L’inquilino dell’Eliseo sconta anche la contraddizione – che non è solo sua perché l’aiuto tattico fornito agli estremisti islamici da parte degli stessi Stati Uniti d’accordo con i servizi pakistani incominciò ai tempi della resistenza anti-sovietica in Afghanistan – di aver prima aiutato le formazioni islamiste e poi di aver cambiato bersaglio.

Piangiamo tutti insieme i morti di Parigi. Nessuno può tuttavia far finta di ignorare che è nell’area arabo-islamica che si fa sentire il peso maggiore della guerra. La raffigurazione dei bombardieri occidentali che colpiscono solo obiettivi militari a confronto delle stragi di civili commesse dai terroristi non dice tutta la verità. Prima e dopo l’Isis, milioni di persone hanno lasciato quelle terre per sfuggire alla guerra senza curarsi troppo di «buoni» e «cattivi». Ci sono contendenti domestici. Ci sono le rivalità fra gli stati della regione. C’è il contrasto fra sunniti e sciiti. Ma sempre e ovunque spicca la «forza» esibita, agita, minacciata dalle potenze occidentali con i loro raids, altrettanto mortiferi per la popolazione delle scorribande e dei crimini dell’Isis e che la propaganda del Califfo sfrutta a suo vantaggio. Da quando Stati Uniti e Europa sono impegnati così direttamente e pesantemente la «guerra» (serve poco derubricarla a terrorismo sul versante del nemico perché essa è e rimane comunque asimmetrica) non potrà più avere come solo teatro operativo il Medio Oriente. Nessun apprendista stregone può ricacciare nella bottiglia del solo Medio Oriente questa conflagrazione, uno dei sottoprodotti del mondo globale, come gli spostamenti massicci di popolazioni, i flussi di profughi e la circolazione delle informazioni, che investirebbe l’Europa anche se non ci fossero i neo-adepti reclutati da Daesh, sia esso in crescita o, come sostengono alcune fonti, potrebbe essere invece, sulla difensiva un po’ ovunque.

Anche prima della recente escalation, da quasi dieci anni Usa e alleati sono impelagati in Iraq e chissà da quanto in Afghanistan. Non solo violenze, manomissioni, totale dispregio dei diritti più elementari ma incapacità ormai acclarata di far emergere e tanto più consolidare lo stato che si diceva di voler riformare o ammodernare per far fronte alle sfide della globalizzazione. Anni fa fallì anche l’operazione Restore Hope in Somalia. La presunta coalizione anti-Isis è divisa al suo interno da profonde divergenze (pro o contro Assad, Iran sì o Iran no, pro o contro una patria curda trasversale, ecc.), ma la diplomazia ha sicuramente più chances della guerra, che, per definizione, può solo distruggere. Si deve alla diplomazia del resto l’unica mezza intesa che in questi anni sia stata raggiunta sulla Siria con la distruzione dell’arsenale chimico del regime del Baath.