Il Russiagate riesplode a Washington, ma al Cremlino la linea ufficiale resta quella della non interferenza in «affari interni a un altro paese».

L’altra metà della partita a scacchi che si gioca tra Russia e Stati uniti – quella che forse interessa di più Mosca – resta ancora quella delle sanzioni e dei nuovi equilibri che si determineranno in Siria dopo la definitiva sconfitta dello Stato Islamico.

Sabato scorso il Dipartimento di Stato – dopo qualche tentennamento – ha pubblicato la lista delle aziende russe che cadranno sotto la scure delle sanzioni di Washington. Si tratta di 33 aziende e holdings russe che commerciano non solo con gli Usa ma anche con paesi terzi. Un pacchetto di misure che potrebbe incidere fino al 1% sulla crescita dell’economia russa nei prossimi anni.

Dmitry Peskov, portavoce ufficiale del Cremlino, ha definito le nuove sanzioni «un ulteriore segnale di ostilità verso il nostro paese e a cui daremo al momento opportuno una limpida risposta». Le sanzioni colpiscono aziende del settore energetico come Rosoboronexport e gruppi siderurgici come Izmash, ma la parte del leone la fa il settore aeronautico e quello militare.

Sono colpiti giganti dell’aviazione come Mig e Tupolev, ma soprattutto le punte di diamante dell’industria militare: la celeberrima Kalashnikov e Vertaloty Rossija. Gli obiettivi americani – neppure tanto celati – sono essenzialmente due.

Impedire la costruzione di gasdotti e oledotti che porterebbero gas e petrolio in Europa senza più transitare per l’Ucraina e rallentare la crescente vendita di armi russe nel mondo. Infatti l’effetto «pubblicitario» dei successi mietuti dall’Armata Rossa nella guerra in Siria sta convincendo molti paesi dell’ex Terzo Mondo a guardare a Mosca per accrescere il loro potenziale bellico.

La Siria, appunto. Ieri Vladimir Shamanov, capo del consiglio della Difesa alla Duma, intervenendo al vertice di Astana, dove si tenta di tenere insieme l’asse anti-Isis di Iran-Russia-Turchia, ha affermato che «le operazioni militari russe in Siria» sono di fatto giunte al termine, essendo ormai il «95% del territorio siriano liberato dalle forze fondamentaliste».

Un successo, ha sottolineato Shamanov, che «ha riportato dal 2015 a oggi oltre un milione di cittadini siriani nelle loro case». Secondo Vladimir Putin, intervistato ieri sera alla tv russa, «l’accordo in Siria con gli Stati uniti ha funzionato. Speriamo di trovare con gli americani altri momenti di unità».

Il Ministero della Difesa russa ha anche annunciato che entro dicembre l’esercito russo si ritirerà da gran parte dalla Siria. Una parte delle forze verrà ridislocata ai confini meridionali della Russia per impedire il rientro o il transito di gruppi sbandati di guerriglieri islamici verso le zone musulmane della Russia e delle repubbliche centroasiatiche.

A Mosca si teme un «effetto di ritorno» in chiave terroristica in tutto il paese che, a soli quattro mesi dalle elezioni presidenziali, va assolutamente evitato.