C’è poco da stare allegri. Perché il guaio è che a volte, per deriva e insipienza della sinistra governativa e non, la destra arriva anche a dire cose «giuste». Ma c’è di peggio: può accadere che un contenuto importante e decisivo come «rivedere le sanzioni alla Russia» finisca in bocca a protagonisti strumentali e incapaci. È quel che accade con il contratto di governo M5S-Lega e con il discorso programmatico del nuovo presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Che subito si è trovato di fronte il muro del segretario atlantico Jens Stoltenberg: «Bene il dialogo con Mosca, ma le sanzioni restano, fino a quando la Russia non cambia atteggiamento». E ieri la neo-ministra alla difesa Trenta è andata a sbattere i tacchi confermando tutte le missioni, pure la nuova, provocatoria, sul fronte del Baltico, e il nuovissimo «sorvolo di sicurezza aerea» del Montenegro. Figuriamoci porre il veto sulle sanzioni alla Russia. Anzi, in chiave salviniana, ha chiesto pure attenzione della Nato sui migranti.

Perché, invece, «rivedere» le sanzioni alla Russia potrebbe essere l’affermazione di un principio di democrazia, proprio a salvaguardia dell’esistenza politica di una Unione europea ridotta a continente delle servitù militari e delle bombe atomiche altrui. Un segnale che esiste come Unione politica che si misura sulle crisi internazionali e non le gestisce per procura.

Che non è subalterna alle decisioni dei comandi militari Nato, in primis appannaggio degli Usa e degli interessi strategici di Washington incarnati ora nella «limpida» figura di Donald Trump. Che, mentre si apre in Canada il vertice del G7, studia sanzioni – rieccole – contro il Canada. Siamo alla guerra dei dazi. E dunque è parte del processo democratico chiedere di rivedere un embargo economico ad un altro Paese.

Basta ricordare che a chiedere di toglierle del tutto le sanzioni alla Russia – non solo rivederle – è stato Romano Prodi, l’ex presidente della Commissione Ue. Non proprio un tardo-stalinista o un nazional-populista. Che ricorda tra l’altro a tutti come ad esserne penalizzati siamo quasi esclusivamente noi, mentre la Germania tratta bellamente con Mosca e si scontra con Kiev sui gasdotti che le servono. Quelle sanzioni, ricordano brillanti penne atlantiste – (ma Federico Rampini della Repubblica non era un leader del movimento studentesco di Milano che contro la Nato bisognava reggerlo?) – sarebbero giustificate dalla crisi dell’Ucraina del 2103-2014 e sarebbero quindi la risposta «all’aggressione di Mosca e all’annessione della Crimea». Quella crisi in realtà esplose dentro l’Europa in preda alla strategia dell’allargamento a Est della Nato, con tutti i Paesi dell’ex Patto di Varsavia che dal 2004 erano entrati nell’Alleanza atlantica, ai confini e intorno alla Russia – v. la guerra in Georgia dell’estate 2008. Nel 2013 accadeva in Ucraina quel che accadeva in Grecia: il governo di allora chiese prestiti all’Ue che prima li negò, poi li legò alla richiesta di rottura del patto economico che Kiev aveva con Mosca.

Una miccia, vista la natura duale, economica e politica, dell’Ucraina legata a filo doppio alla storia russa. Nel caos che ne derivò, esplose la rivolta «popolare» di Majdan guidata dall’estrema destra; poi arrivarono su piazza il capo della Cia John Brennan, il segretario di Stato Usa Kerry, i leader baltici, tutti a soffiare sul fuoco e a fare campagne elettorali; chiudendo gli occhi su stragi come quella di Odessa; e provocando alla fine il separatismo armato e senza sbocco nel Donbass. La Crimea arriva dopo tutto questo. Siamo sinceri, la Russia ha fatto lì meno peggio di quello che la Nato ha fatto in Kosovo. In Crimea un referendum al 96,6% ha certificato l’appartenenza – provate a smentirla – alla Russia della penisola storicamente contesa e ormai sotto tiro delle flotte Nato di stanza nelle basi del Mar Nero in Romania e Bulgaria. In Kosovo, dopo la guerra di raid aerei della Nato e le chiacchiere della pace di Kumanovo del giugno 1999, gli Stati uniti nel 2008 hanno appoggiato un referendum dove ha votato il 43% delle persone: così uno «Stato» grande come il Molise si è autoproclamato indipendente, ma intorno alla mega base Usa di Camp Bondsteel. Uno status che crea conflitto in Europa (Spagna, Grecia, Cipro, Slovacchie e Romania non lo riconoscono), nel mondo e all’Onu. Qualcuno ha mai parlato di sanzioni alla Nato o a Washington? Senza dimenticare che le sanzioni occidentali alla Russia hanno alla fine rafforzato Putin, presentandolo in Russia come il difensore indiscutibile degli interessi nazionali.

La verità è che stiamo nella Nato perché è il passaporto per vendere le nostre armi – finché c’è guerra c’è speranza per il made in Italy, alla faccia dell’articolo 11 della Costituzione. Ma è giusto sapere che ogni corrispettiva richiesta di partecipazione italiana alle scellerate guerre che ci ostiniamo a chiamare «missioni di pace» – per le quali la Nato è stato il motore centrale – non solo non ci hanno portato dividendi, al contrario ci hanno procurato solo disastri. Valga per tutte l’avventura militare della guerra in Libia nel 2011.

Ecco perché lo scontro sulle sanzioni alla Russia è un gioco truccato. Chi timidamente lo solleva, per formazione e appartenenza politica come Giuseppe Conte, probabilmente non sa nemmeno quello che dice e rischia di passare per irresponsabile e magari lo è; mentre chi rispolvera «democraticamente» l’atlantismo anti-russo, quasi da riedizione della Guerra fredda, sgomita ardentemente per apparire come difensore della civiltà occidentale.