Che la letteratura trovi la sua ragion d’essere nel gaudio, è una tesi oggi lontana dal venire impugnata almeno quanto vicina è la possibilità di suscitare un interesse non privo di stupefatta diffidenza. Il progressivo scarnificarsi di un pubblico, abituato a reputare gli scrittori come abili venditori dei loro traumi, suggerisce che tra le componenti più sferzanti della crisi del romanzo, oltre all’impoverimento linguistico (il cosiddetto post-gaddismo), ci sia il ripiegamento diegetico di un io collassato nei propri labirinti, non desideroso di alterità. Un io incapace di cogliere la «formula di felicità» insita nella poesia. È da tale impostazione critica – il «mistero gaudioso» della scrittura – che Luigi Santucci, di cui, tra pochi giorni, ricorre l’anniversario del centesimo genetliaco, ha iniziato la sua carriera di poligrafo. Formatosi nell’effervescente ambiente milanese degli anni quaranta (importante l’amicizia con David Maria Turoldo), esordisce in veste di narratore con la sapida raccolta di racconti, I misteri gaudiosi, nel ’46, approdando l’anno seguente a Mondadori grazie al pitagorico In Australia con mio nonno. Le novelle umoristiche, un po’ alla Chesterton, di Lo zio prete (’51), se lo avvicinano alla prosa trecentesca, pure lo schierano ideologicamente: la cornice ecclesiastica della silloge, benché delineata con taglio eccentrico, produce il plauso dei cattolici e le perplessità dei laici.
Come salvare la traccia del passato
Al 1963 risale Il velocifero, per l’epoca un best seller, oggi riproposto da Mondadori negli «Oscar moderni» (introduzione di Alessandro Zaccuri, pp. 350, € 15,00). Anche in questo libro, che con Orfeo in paradiso (premio Campiello ’67, da cui fu tratto un celebre sceneggiato televisivo) costituisce il dittico meglio servito della carriera di Santucci, non è dimenticata l’iniziale professione di makarismòs: il velocifero è la diligenza malconcia a cui la fantasia di Renzo e Silvia Bellaviti ricorre per custodire la fragile serenità di una famiglia milanese, a cavallo tra due secoli, improvvisamente trovatasi a fare i conti con eventi luttuosi e inevitabili tumulti. L’interrogativo di fondo sembra il medesimo: in che modo salvare dalla disgregazione in fine velocior la traccia del passato? Un’arca di Noè non è in salvo se non nella memoria di chi ama… Come nota Zaccuri, Il velocifero «si rivela un romanzo niente affatto ignaro dei tabù che in quegli anni affiorano dalla narrativa di Alberto Moravia. La differenza sta nel fatto che, in questa fase della sua ricerca, Santucci lavora di riflesso, per omissioni e allusioni».
Influenzato dall’esistenzialismo di de Rougemont, l’autore meneghino utilizza mito e psicoanalisi a guisa di un bastone della pioggia: rovesciandone gli estremi. Pervenire alle radici della teoresi antropologica significa esplorare una regione spirituale che in quegli anni cominciava a incrinarsi nel dibattito non solo letterario, fino a perdere terreno e recedere dinanzi al passo di un esibito fisiologismo. Santucci utilizza come ruse gli strumenti compositivi della prosa contemporanea – persino la fisicità, lo scarto epirrematico, il surrealismo nel realismo, si pensi a Il mandragolo – ma ne ripristina lo sfondo religioso. Esso appare anche nella produzione legata alla letteratura d’infanzia: fresco di stampa è un collected di racconti inediti, Gli scampati (Marietti 1820, pp. 80, € 7,00), che «hanno un comune fondamento e ispirazione: il sentimento di fraternità nei confronti della vita e degli uomini», sottolinea Giorgio Tabanelli nella prefazione.
Un arpione affondato nella psiche
Braccato dall’etichetta di «scrittore cattolico», a Santucci va riconosciuta la virtù, non ovvia, di aver reso di nuovo il cattolicesimo narrativamente credibile, laddove il narrativo necessitava di affondare l’arpione gnoseologico nello psichico. Dalla sua opera, infatti, i personaggi e gli esecutori del vivere evangelico escono dotati di una dimensione interiore che integra, senza sostituire, la realtà delle fede: non aprioristici idoli privi di angolature, ma soggetti pienamente intatti, la cui ampiezza psicologica – rappresentata secondo le screziature più sottili, sorprendente anche per chi vi si accosti con risoluta acquiescenza – risulta per nulla estranea al sentire del lettore, anzi schiude in lui un varco di prossimità, un mirar fiso slargato dal tagliente espressionismo della lingua (esemplari alcuni cambi di tono nel Velocifero, dal lombardo al latino, all’inglese o al francese letterario).
All’opera di assestamento, per altro in linea con il Concilio Vaticano II, e alla contiguità nel diverso si deve il dispiegarsi di una cortocircuitale «cristomachia», rovello dialettico per un autore la cui fede non fu – come ha ricordato il cardinal Ravasi – comodo stallo, bensì itinerario alterno di conquiste e golfi d’ombra. La sua scrittura trae origine dall’argomento materno, centro propulsore di alcune poesie, dello stesso Orfeo in paradiso (l’idea è adiacente al Seme del piangere di Caproni), e di Volete andarvene anche voi?, biografia cristologica che apre sulla maternità – e sulla mariologia nel senso soggettuale più vasto – squarci davvero memorabili. «Ma tu sei come noi: la più alta vittima della vita, la più rassegnata. Maria, tu sei la capofila delle nostre sventure; e quando ci sembra di pregarti non è preghiera la nostra: è entrare nella tua stanza di Nazaret a dirti che ci siamo fatti male, nascendo e vivendo, come facevamo con l’altra nostra madre, fiduciosi che tu possa fare per noi – o risponderci almeno – qualche cosa».