I santi del jazz (Dizzy, Thelonious, Ella e John, nel senso di Coltrane) sorrideranno nel paradiso della musica afroamericana. Ad essi il Roma Jazz Festival ha dedicato dei santini «sfiziosi», e del resto il grande narratore afroamericano Ishmael Reed ha composto una lirica intitolata «Quando morirò io andrò nel Jazz»,. I santi sorrideranno perché l’edizione 2017 del Roma Jazz Festival (5-30 novembre) – incentrata su concetto lato «jazz is my religion», – ha avuto un buon successo di pubblico nelle molte sedi dei suoi ventuno concerti. Alcuni si sono svolti nelle chiese ed hanno visto i pianisti Tigram Hamasyan e Giovanni Guidi e il sassofonista Dimitri Grechi Espinoza. A conclusione dell’articolata rassegna – che ha ospitato, tra gli altri, i Funk Apostles di Cory Henry – non è mancato l’omaggio al mistico Coltrane (con il trio di Francesco Bearzatti) e al Duke Ellington spirituale dei Sacred Concerts (recital di chiusura alla sala Petrassi dell’auditorium il 30 novembre).

Su un paio di questi concerti vale la pena di riflettere proprio per mettere a fuoco alcuni aspetti della spiritualità del jazz. Il 24 pomeriggio il sax tenore di Dimitri Grechi Espinoza è risuonato all’interno dell’ampia volta del Pantheon, luogo di culto degli antichi romani, basilica cristiana e tomba dei re d’Italia. La scommessa non era facile: concerto alle 18, ingresso gratuito, flusso ininterrotto di turisti. Eppure Espinoza è riuscito a catturare l’attenzione di chi era lì per caso come di chi aveva scelto di ascoltare il jazzista nato in Russia e cresciuto tra l’Italia e N.Y. Sì, perché da alcuni anni va indagando una dimensione di solo in cui utilizza il riverbero di spazi particolari per dialogare con sé stesso, per dare al suono una proiezione spaziale e interiore particolare (si ascolti il cd ReCreatio). Dimitri Grechi Espinoza unisce spiritualismo, sperimentalismo, esplorazione e valorizzazione d’ambiente (il precursore fu Steve Lacy): al Pantheon ha sedotto tutti con gli echi meditativo-minimalistici del suo tenore e concluso il recital con un astratto ’Round Midnight.

Dalla solitudine meditativa a quella collettiva: il 30 la sala Petrassi ha ospitato la New Talents Jazz Orchestra diretta da Mario Corvini ed il Coro del Conservatorio di S.Cecilia guidato da Carla Marcotulli, con ospite e voce narrante Greg Burk. In programma brani dai tre concerti sacri scritti da Ellington nel 1965, ‘68 e ’73. Come precisato nei comunicati-stampa, «l’esecuzione filologica delle musiche si basa sui manoscritti di Ellington conservati allo Smithsonian Institute di Washington trascritti ed editi da Schirmer/Ricordi».

Ottimo il recital perché dimostra come si possa fare repertorio con rigore senza rinunciare ad un’esecuzione vibrante e passionale da parte di musicisti e cantanti giovani pieni di talento ed entusiasmo. Le pagine ellingtoniane travalicano le forme tradizionali e restituiscono le sue profonde meditazioni sulla vita e sulla morte senza per questo rinunciare al ritmo, alle combinazioni timbriche, al feeling caratteristici del Duke. Tra i brani più trascinanti e caleidoscopici In The Beginning God, Ain’t But The One, Something About Believing, Almighty God, Come Sunday (dalla suite Black Brown & Beige), Freedom (ispirato alla scomparsa di Billy Strayhorn) ed il travolgente Praise God And Dance, usato anche come bis. Musica davvero immortale.