Il Cile, oggi: un pessimo governo di destra che sembra sgradito perfino ai suoi stessi sostenitori; elezioni presidenziali a novembre, con la socialista Michelle Bachelet (già presidente della Repubblica dal 2006 al 2010) quale grande favorita; un’economia in crescita, ma che non ha mai sanato le vistose diseguaglianze sociali; una classe media sempre più insoddisfatta; un vasto e combattivo movimento studentesco nato nel 2011, che, al grido di «L’istruzione si difende, non si vende», un mese fa ha organizzato una delle più grandi manifestazioni degli ultimi anni, dando il colpo di grazia al ministro dell’educazione Harald Beyer, destituito brutalmente dal Senato giusto una settimana dopo. E, per finire, un passato doloroso con il quale bisogna ancora chiudere i conti, nonostante siano trascorsi trent’anni dal referendum che ha segnato la fine del regime di Pinochet così brillantemente narrato da Pablo Larraín nel film No, e sia ormai conclusa la complicata e ambigua stagione di passaggio tra dittatura e democrazia.
Quanto di tutto ciò portano con sé gli scrittori e gli studiosi invitati al Salone del Libro di Torino, dove il Cile è il paese ospite? Moltissimo, com’è ovvio, perché la letteratura cilena non ha mai smesso di leggere e rileggere, elaborare e interpretare la realtà del proprio paese, riuscendo negli ultimi decenni a sperimentare forme e tematiche nuove che oggi la inscrivono in un orizzonte ben più ampio di quello nazionale e testimoniano l’esistenza di un pluralità di voci originali e stimolanti.

Illustri defunti
Il che non è poco, in un panorama culturale che deve fare i conti con tre ingombranti pietre miliari: in primo luogo una tradizione così imponente e incontestabile da essersi trasformata in luogo comune (quello, cioè, che ha incollato al Cile la non ingiustificata etichetta di «paese dei poeti»), poi il canone del Boom, fenomeno letterario pienamente vissuto negli anni ’70 da autori come Donoso e costeggiato da altri scrittori, e infine l’ineludibile richiamo dell’opera di Roberto Bolaño, autentica summa di un fermento innovativo del quale la letteratura latinoamericana contemporanea può andare fiera.

La presenza cilena al Salone sembra rifarsi soprattutto al primo di questi aspetti, ovvero alla grande poesia novecentesca di Pablo Neruda, Gabriela Mistral, Vicente Huidobro e Gonzalo Rojas (la sua opera, vasta quanto fondamentale eppure mai tradotta da noi, è stata appena riunita a cura di Fabienne Bradu in un unico volume intitolato Integra e pubblicato dal Fondo de Cultura Economica), un quartetto glorioso che include due premi Nobel cui verranno dedicati recital, mostre, presentazioni e analisi che si prospettano di sicuro interesse, vista la competenza degli studiosi incaricati di parlare della loro opera (tra gli altri Hernán Loyola, uno tra i maggiori esperti dell’opera nerudiana, il presidente della Fondazione Neruda Fernando Saez e Gabriele Morelli, autore dell’unica traduzione italiana di Huidobro, pubblicata nel 1995 da Jaca Book).

Non manca un incontro su Nicanor Parra, premio Cervantes e fratello della mai dimenticata Violeta, che nel 2014 compirà cento anni e che, carico di premi e di fama ma sempre eccentrico e provocatorio, si può considerare il più illustre dei poeti cileni viventi e certo uno dei più importanti di tutta l’America Latina, anche se qui in Italia pochi lo conoscono, visto che esiste una sola traduzione della sua «antipoesia» (Le montagne russe: poesie scelte, a cura di Stefano Berardinelli, Medusa 2008), pronta a far salire i lettori su un ottovolante verbale e a declinare ogni responsabilità se scenderanno «sanguinando dalla bocca e dal naso».

Oltre agli illustri fantasmi che sembrano trasformare il padiglione cileno in una replica del «Litoral de los poetas» nei dintorni di Valparaiso, dove si possono visitare le case e le tombe di Neruda e Huidobro, ci sono comunque numerosi poeti da «toccare con mano», come Raúl Zurita (qualcuno ha probabilmente incontrato il suo nome, insieme a quelli di Parra e di Lihn, nei romanzi di Bolaño) e Oscar Hahn, la cui straordinaria bravura è ancora ignota ai lettori italiani, ma non per molto, visto che presso la casa editrice Rayuela sta per apparire la prima traduzione dei versi di Hahn. E a questo punto viene da osservare che, anche se i poeti cileni sono troppi per poterli ricordare tutti, all’elenco andava forse aggiunto il nome di Enrique Lihn, scomparso venticinque anni fa, esponente dell’avanguardia e critico davvero difficile da ignorare.

Fantasmi sotterranei
Com’è difficile ignorare, tra i tanti omaggi a celebri defunti, l’assenza del minimo accenno a uno dei più importanti romanzieri di lingua spagnola del novecento, ovvero José Donoso, «un rivoluzionario suo malgrado» (così lo definisce il critico e scrittore Álvaro Bisama) che ha saputo rappresentare con puntuale ferocia «l’utopia di un paese deforme, di un luogo posseduto dal male, costruito con gli incubi inconfessati dei suoi cittadini», evitando le trappole del realismo costumbrista e aprendo la letteratura del proprio paese a una modernità transnazionale.
Ma Donoso, padre «ucciso» fin troppe volte e da rileggere con occhi nuovi, sarà sotterraneamente presente in più modi, per esempio attraverso il legame con Jorge Edwards – solido romanziere di cui è giusto ricordare un romanzo importante come Persona non grata – che al Salone rappresenta la memoria storica della letteratura cilena e che è stato amico per tutta la vita dell’autore di capolavori quali L’osceno uccello della notte, Casa di campagna e Il luogo senza confini. E Donoso verrà di certo in mente a chi incontrerà alcuni scrittori tra i cinquanta e i sessant’anni usciti dal suo laboratorio di scrittura, come Roberto Brodsky o Arturo Fontaine, a Torino per presentare l’edizione italiana di un suo romanzo, ma noto anche per il suo incarico di direttore del Cep, una sorta di potente tink tank neoliberista, e per essere il figlio di colui che durante gli anni della dittatura diresse il quotidiano cileno El Mercurio, vicino al regime in modo più che imbarazzante.

Insieme ad Alberto Fuguet, Carlos Franz, Gonzalo Contreras e altri ancora, Brodsky e Fontaine hanno fatto parte di quella che si usa chiamare la «nueva narrativa» cilena, cioè della generazione che ha raccontato la memoria della dittatura e soprattutto gli anni della Concertación e l’esperienza di una democrazia sotto tutela, piena di zone grige e densa di risentimenti, di indulgenze criminose e di silenzi. Una generazione, tra l’altro, che ha visto l’editoria e la cultura, già ridotte al silenzio dalla censura, dai roghi di libri e dall’enorme diaspora degli intellettuali esiliati, rinascere e allo stesso tempo approdare al sistema internazionale dei best seller, producendo successi di vendite come quello di Skármeta, di Isabel Allende, di Marcela Serrano, che non si sono spinti fino a Torino per incontrare i lettori italiani ma che verranno facilmente rintracciati in forma di libro negli stand dei loro editori, e naturalmente di Sepúlveda, che al Salone presenta Ingredienti per una vita di formidabili passioni, il suo ultimo libro edito da Guanda, e che ha motivato politicamente il suo rifiuto di far parte della delegazione ufficiale.

Accanto a quelli che si potrebbero considerareveri fabbricanti di libri «da classifica», brilla un ridotto numero di autori poco seguiti all’estero ma di indiscutibile rilevanza letteraria, come Pedro Lemebel (anche lui assente), splendido crónista che con Loco Afán ha scritto uno dei più bei libri sulla transizione, narrata attraverso gli occhi di travestiti e locas da marciapiede), oppure Diamela Eltit, scrittrice raffinata e potente, della quale l’editore Atmosphere farà conoscere durante il Salone un romanzo assolutamente da leggere, Imposto alla carne, in cui una madre e una figlia arrivate alla mitologica età di duecento anni sopravvivono in un terrificante universo ospedaliero che le studia, le maneggia, le tormenta, le umilia e somiglia fin troppo alla società cilena degli ultimi due secoli.

Un autore di culto
Sulla letteratura cilena come su quella di tutta l’America latina, alla fine degli anni ’90 si è abbattuto il ciclone Bolaño, scrittore la cui breve vita è trascorsa quasi per intero lontano dal Cile e che ha polemizzato senza soste con gli intellettuali suoi compatrioti, attaccandoli con la caustica ironia di chi ha opinioni e gusti forti e ben motivati. Attorno a lui si è addensato un culto che sembra non ammettere critiche, come ben sa Carlos Velázquez, giovane scrittore messicano che all’ultima Fiera del Libro di Guadalajara (dove il Cile è stato paese ospite pochi mesi fa) ha osato avanzare qualche riserva ed è stato metaforicamente sbranato dai bolañistas presenti all’incontro, fossero critici o semplici lettori.
A Bolaño, scomparso nel 2003 e che proprio in questi mesi avrebbe compiuto sessant’anni, il Salone dedica giustamente celebrazioni assortite, dalla confezione di murales collettivi ai dibattiti con partecipazione della vedova Carolina López e dell’amico Javier Cercas, alla proiezione di Il futuro, un buon film cileno tratto da Un romanzetto lumpen, riedito oggi da Adelphi, curiosamente ambientato a Roma e scritto su commissione per una serie editoriale dedicata alle città.

Omaggi sacrosanti e dovuti, certo, ma che si spera siano un po’ più lucidi e meno inneggianti del consueto: a dieci anni dalla morte, è forse il momento di avviare sul complesso dell’opera di Bolaño una riflessione che, oltre a riconoscere i meriti di uno scrittore universalmente amato e ammirato, ne inquadri meglio l’opera nel ricchissimo contesto letterario latinoamericano dal quale lui, lettore prodigioso cui nulla sfuggiva, ha attinto con sapienza a piene mani.

Può darsi sia ora, insomma, di separare il grano dal loglio anche per quanto lo riguarda, senza rischiare l’accusa di lesa maestà e arrivando magari ad ammettere che la sua vera grandezza si concentra in molti racconti perfetti e in alcuni memorabili romanzi – non necessariamente i più celebrati, tra l’altro – , e che bisogna riconoscere apertamente l’insufficienza di testi dichiaramente minori e non all’ altezza (qualcuno ha mai letto Anversa?), nonché dei fondi di cassetto o delle opere riuscite a metà che sono venuti alla luce dopo la sua morte.

In America latina lo stanno gia facendo, anche se con mille cautele, e c’è perfino chi non esita a dichiarare il miglior Bolaño ben lontano dal fulgore letterario di scrittori come Levrero o Saer, mentre qualcuno esagera nel definirlo addirittura «una sorta di porta d’entrata ideale alla letteratura adulta, un autore la cui lettura può aiutare ad avvicinarsi ad altri, più complessi e meno noti». Che sia o no troppo presto perché la devozione al mito ceda il posto a uno spassionato e sereno lavoro critico, sarà bene ricordarsi che il primo a esserne contento sarebbe proprio lui, oggi sul punto di essere sommerso da quella unanimità che tanto disprezzava.